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Racconto n° 3487
Autore: Faber Altri racconti di Faber
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Rebecca e i giochi
I giochi tanto attesi si svolsero in un tripudio di folla.
Giunsero in città migliaia di persone, dimentiche per qualche giorno almeno di ansie e preoccupazioni. Quasi volessero tutti non pensare alla crescente mancanza di grano e di olio nei loro magazzini, la città si riempì già giorni prima di genti vestite in fogge strane, curiose e perennemente in movimento, tra piazze, mercati, templi.
Venditori di mille mercanzie, ladri, borseggiatori e prostitute affluirono in città, esaltati dalla possibilità di facili vendite, e affari di dubbia onestà, favoriti dalla confusione generale. Che nell'ebbrezza di quelle giornate sarebbero certo avvenute, facili e veloci, le loro acrobazie di commerci leciti o meno, quando divertirsi era quasi un obbligo inebriante per un popolo che stava vivendo fin troppo dure prove.
Al terzo giorno, dopo gli scontri con le fiere, e gli spettacoli di lottatori, finalmente le corse con le bighe, che erano da sempre lo spettacolo preferito da buona parte del pubblico, animarono scommesse, risse e tensioni. Ovunque si improvvisavano capannelli, intorno a uomini che offrivano attirando i viandanti con aria di proporre loro il migliore affare della loro vita, di puntare sui propri favoriti. Con quote prefissate, che non puntare era quasi dare un calcio alla fortuna, in caso di vincita di Flavio il Tracio, o del Cisalpino. Che tutti davano nella corsa coi tiri a tre cavalli come i favoriti.
I giochi avevano una durata prevista di sette giorni e si sarebbero conclusi a breve, con una grande cerimonia al tempio di Giove. Mi recai con Rebecca, che mai aveva visto i ludi, ad assistere alle gare, proprio nella giornata delle corse.
Cominciavano al mattino, un'ora dopo l'alba, e lei, bella come il sole nella giornata dalle ombre così stagliate al suolo, tra i mormorii di chi mi conosceva - e vistosamente non credo apprezzasse il mio accompagnarmi in occasioni così mondane in compagnia della mia schiava - prese posto a me vicina.
La disapprovazione che sentii circondarci nelle persone che credevo e consideravo almeno vicine, se non anche amiche, mi domandai se avesse origine nell'inopportunità sociale di questa mia ostentazione o nell'invidia che si manifestava negli sguardi nemmeno così dissimulati. Potei cogliere gli occhi di Aristone e di Leandro, e di Mario il tebano, perdersi sulla morbidezza del tessuto che malamente poco la copriva, poi scivolare sulle curve orgogliose dei suoi seni, tesi a colmare e appuntire il tessuto. E sul gioco delle cosce, che, al suo sedersi rimanevano oscenamente nude, almeno un attimo solo.
Rebecca si emozionò come una bambina, rise alle esibizioni goffe e volutamente catastrofiche degli attori e cascatori che si simularono atleti, per burla, e nella conca di pietra e marmo, riecheggiò più e più volte, oltre alla sua, la più corale delle risate.
I ludi funzionavano, pensai, erano una buona cura e un buon vaccino, e l'idea di aver offerto svago alla città era stata un'idea vincente, una volta tanto, dopo tanti provvedimenti impopolari. Fu alla corsa dei tiri a tre, la più spettacolare che si ruppe improvviso, in un solo grido, l'incanto.
Come per caso. Le bighe in gara erano più strette, e i tre cavalli, appaiati quasi, che ne trainavano ciascuna, rendevano così incredibile il sorpassarsi dei cocchi. Quasi un'idra di teste e code infuriata, e schiuma alle bocche e alle nari, un demone di polvere e sudore, ad ogni lor stringersi forzando il passo al momento di curvare, stretti.
Sei i corridori.
Tutto il pubblico era in piedi e Rebecca era agitatissima, lei per prima. Mi confidò di avere visto corse di cavalli al suo villaggio, tra i migliori guerrieri, e che il migliore era quello cui era stata promessa in sposa dal padre sino da bambina. E che i nostri soldati avevano ucciso lui e tutti i più validi guerrieri quando lei fu presa prigioniera. Nel dirlo si scostò da me. D'istinto.
Presi il suo polso e con l'altra mano le serrai il fianco con forza, riportandola al posto suo.
La sua resistenza fu breve e solo un attimo dopo aderiva ancora così forte col suo corpo al mio, da colmarmi del profumo del suo corpo, delle spezie con cui era stata lavata e dalla fragranza di giovane femmina del suo sudore, le narici. Ancora.
Alla seconda curva, in piena velocità, stringendosi tra loro i cocchi, avvenne l'urto. L'impatto che si trasformò all'istante in urlo della folla. Ferita.
Sentii Rebecca contrarsi e quasi urlare coi fianchi allo spettacolo improvviso.
Forse si incastrarono le ruote dei carri troppo vicini in curva. O uno dei cavalli del Tracio perse la presa al suolo, e scivolò, trascinando nella sua caduta gli altri e quelli del carro troppo accostato a loro. Fatto sta che fu polvere e groviglio e rumore di legnami spezzati, urla e nitriti come se tutti i cavalli venissero sgozzati in un colpo solo. In un sacrificio collettivo.
Gli altri carri continuarono la corsa, scansando l'ostacolo che si dibatteva e agitava senza capo, corpo o coda, ridotto solo groviglio frenetico e indistinto, nella nuvola di terra sollevata.
Corsero inservienti dalle stalle e dai loro ostelli, alcuni dietro il luogo dell'incidente, per far arrestare al ritorno dopo il giro le altre bighe, altri a soccorrere uomini e cavalli in quella catasta che sussultava. E pulsava.
Finirono sgozzandoli sul luogo tre cavalli che erano azzoppati, per abbreviare le loro sofferenze. Ruppero a colpi di ascia frenetici ciò che restava delle bighe, per liberare i guidatori. Trascinarono via i rottami, coi corpi dei tre cavalli uccisi, e quello del cavallo morto nell'impatto da solo.
Una scia di sangue si allargò a lato del fiore di legna e carne.
Poi estrassero e dapprima trascinarono per i piedi, di gran fretta e furia, poi sollevarono quasi con devozione, i corpi del Tracio e di un altro corridore. La folla ammutolì, un attimo solo, poi trasformò il grido dell'impatto in crescente e ribollente brusio.
Vidi due donne piangere. Vicine a noi. E molti occhi farsi lucidi e arrossare.
Il Tracio era un eroe.
Amato e benvoluto, quasi un simbolo dei giochi cittadini.
Gli tributarono onori e mezza città andò a vederne il corpo ripulito, ornato, profumato, esposto fuori dal Senato, già dalla sera stessa, per tre giorni, prima della cremazione. I giochi cessarono, per editto straordinario senatoriale.
In tutta la città per giorni interi si sentì solo parlare della corsa, dell'incidente, di quel groviglio blasfemo di corpi equini e umani e schegge di calesse. Qualcuno disse che il Tracio nel tentativo di frenare ed evitare l'impatto si fosse erto come un gigante, puntando i piedi, gonfiando fino a farli scoppiare i muscoli delle sue braccia e avesse spezzato con la sua forza le due briglie di duro cuoio che teneva in mano.
Fu quella notte.
Che Rebecca stringendosi a me pianse. Mi confessò di odiare me e il nostro popolo.
Di non riuscire a dimenticare il suo villaggio, le genti morte nell'assalto delle nostre legioni. Il fiume, e i giorni passati al ritmo rassicurante delle sue stagioni, da bambina.
Che non avrebbe mai potuto essere come le altre schiave, e dimenticare. Dapprima mi colpì il petto coi pugni serrati, senza farmi alcun male né causarmi alcun dolore.
Sdraiata a fianco a me nel letto. Poi cominciò il suo pianto infinito, quasi avesse un fiume da lasciare uscire troppo a lungo trattenuto. Sussultava nei singhiozzi, nuda, contro i miei vestiti. Le ginocchia strette alte verso il seno, come un feto.
Bagnò di lacrime la mia tonaca facendo diventare, dove la bagnava, il lino bianco, scuro.
E più diceva che ci odiava, più si stringeva. Le mani strette a pugno afferrava e teneva il mio abito, quasi aggrappandosi per non cadere, precipitare nelle sue paure.
Mi spogliai, pur faticando per liberarmi in modo dolce dalla sua presa. Non osai io proferire parola alcuna. La carezzai. Fino a che le si calmò il sussultare dei fianchi, del ventre e del seno.
Poi la baciai. A lungo, finchè fu lei a schiudersi, scorrendo con le gambe sul lenzuolo, e in silenzio a chiedermi di entrare. A darle pace.
Senza parola alcuna, gli occhi suoi così rossi per le lacrime e così dolci da averne io paura.
Entrai nel suo ventre come se fosse stata la prima volta che lo prendevo e lo possedevo e io fossi dentro di lei il primo. Sfiorai il piccolo anello d'oro con il glande, lo sentii freddo e mi eccitò oltre misura, poi proseguii.
Mi mossi piano, con sicurezza e calma, per non perdere un attimo solo del suo calore che si scioglieva. E mi avvolgeva il sesso.
Quando lei cominciò ad ansimare, ma solo allora, ascoltandole il respiro con rinnovato e nuovo stupore, quando la bambina cominciò a diventare femmina e poi animale caldo, cominciai ad accelerare io.
Non mi importò in quel momento dei suoi pugni battuti con rabbia disperata contro il mio petto mentre mi odiava con le parole.
Ero felice del suo ventre che mi amava. Strinse le cosce ai mie fianchi mentre godeva, e io ne fui felice.
Il giorno dopo, per chiudere con onore anticipatamente i giochi e dare pace al dolore popolare, stanziammo in senato una donazione alle vedove e agli orfani delle guerre di frontiera contro i barbari degli ultimi mesi. E ordinammo che Fidone, le cui sculture tutti amavano in città, scolpisse una grande statua equestre, almeno una volta e mezza le sue misure quando era vivo, del Tracio. Da mettere, con grande festa e profusione di musiche e fiori, sulla piazza del mercato in occasione delle Idi.
Uscii di casa, per recarmi in Senato e partecipare alla delibera e alla discussione, che Rebecca dormiva ancora.
Un servo mi avvisò mentre uscivo e assaporavo l'aria fresca e pulita del mattino, che alla cena di Terzio Sabino sarebbero venuti la mia sposa ripudiata con suo padre e che avrebbero portato con loro come desideravo fortissimo in cuor mio anche Aminah.
Sorrisi, inarcando le reni stanche per la lunga notte d'amore. Rebecca, nella notte, aveva avuto ragione delle mie reni e del mio corpo che cominciava a sentirsi antico coi suoi appetiti di ragazza. Risi, passando dal sorriso al riso. Perché si preannunciava proprio una bellissima giornata.
E non mi davo cura o preoccupazione che alcuna nube mai avrebbe potuto guastarmi la giornata.
In tutta Roma io, forse io solo, almeno, ero felice.

Faber

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