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Racconto n° 3612
Autore: Faber Altri racconti di Faber
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Rebecca e le lettere
Quando comperai Rebecca, ricordo ancora il giorno della scelta, anche perché, benché ci fosse un'offerta assai scarna quel giorno, e si sarebbe fatto in fretta a valutare ogni schiava in vendita, non valutai né soppesai nemmeno altre scelte.
Mi colpì subito.
Non solo per la bellezza.
L'aria selvatica, l'odore del suo corpo sudato che superava la distanza tra l'assito su cui era tenuta dalla catena e me, lì sotto, a terra.
Il corpo nudo, sporco di terra e polvere, lo sguardo di animale prigioniero con cui sembrava quasi voler sfidare lei la piccola folla volgare e vociante, che davanti alla pedana di legno su cui era esibita la merce, si accalcava. Sembrò ai miei occhi una nobile guerriera, non una serva.
Decisi subito l'acquisto. E feci avvicinare Armida al mercante per evitare di dovermi piegare al gioco dei rilanci e delle trattative, coi suoi complici mescolati tra la piccola folla al solo scopo di fare lievitare il prezzo a dismisura.
Non che ve ne fosse bisogno, di artificiosi e laidi inganni al rialzo: il mercante ben mi conosceva e, considerandomi un cliente poco disposto a dare mostra dei suoi acquisti o farsi vedere troppo a lungo in quella situazione, sovrastimando oltretutto evidentemente, come fa chi vive di invidia, le mie ricchezze, mi chiese un prezzo che in altre situazioni avrei addirittura reputato offensivo.
Ma tale era la rabbia per la lontananza di Aminah, e tale e tanto il desiderio di azzerare in qualche modo la mia stolta generosità con Gaia e il padre di lei, che al ritorno di Armida a me con lo smisurato prezzo, incurante della riprovazione nascosta in modo inefficace dalla vecchia e saggia serva, feci un cenno del capo al mercante.
Accettando senza mercanteggiare un prezzo a cui avrei comprato tre schiave meno belle o un valente gladiatore, da mettere in campo per dare lustro alla mia nomea in tutta la città per mesi e mesi. O anni.
Mi allontanai, lasciando ad Armida la piccola sacca di monete d'oro che avevo portato sotto la tunica per lo scopo, e delegando a lei le incombenze dello scambio dell'oro con la schiava.
Mi accompagnarono, fin dove riuscii ad udirle, le proteste e il brontolio degli altri acquirenti che si erano visti sfilare, senza avere nemmeno avuto modo di fare offerta alcuna, la carta più bella dal già misero mazzo esibito sull'assito. Risi.
Pensando a come la mia popolarità, dopo gli ultimi discorsi miei in Senato e le mie ultimissime prese di posizione in materia di pene e tasse, certo non avrebbe avuto bisogno di questo ulteriore aiuto per sprofondare ancora un poco verso l'abisso. Armida poi, come ho già avuto modo di dire, si prese cura subito, a casa, di Rebecca, a cui il nome da me fu donato, e la rese presentabile, pulita, profumata.
Ebbe ragione dei capelli che si rivelarono splendidi, una volta tagliati in modo regolare, lavati, liberati da grumi di terra e fango, e profumati e resi morbidi da resine e olii dall'aroma caldo e mielato. Ne limò le unghie, che aveva belle e forti ma rotte e troppo lunghe per vivere tra i civili.
Ne sbiancò con una radice di liquirizia e argilla i denti.
Passò pomice di mare sui suoi piedi, sui calli delle mani, sui gomiti, ne levigò ogni ansa o promontorio in cui il lavoro e la vita selvatica, da lei condotta tra i barbari suoi famigli, avessero dimenticato come debba essere morbido e atto al piacere dello sguardo e delle mani il corpo di una donna, soprattutto di una schiava.
Quando Armida condusse a me Rebecca ero intento a scrivere una missiva da inviare al proconsole in Sicilia. Vicino a me stava in piedi Alfio Decano, il servo.
Il più abile a montare un cavallo tra quelli che vivono nella mia casa, quello che spesso per questa sua perizia, e la fiducia meritata col suo passato di legionario, cura da anni le incombenze di fiducia e tempestività che riguardano i miei scambi epistolari.
Rebecca guardò stupita i segni strani che tracciavo, e fu la prima volta che colsi nel suo sguardo qualcosa che non fosse sfida e odio.
Era evidente che la sua gente non conosceva la scrittura, così mi venne idea e voglia di fare un gioco.
Chiamai Armida vicina e le dissi di chiedere a Rebecca il nome di suo padre, e del suo fratello maggiore, se mai ne avesse uno. Di farseli dire sottovoce di modo che fosse chiaro alla giovane che io non potessi sentire alcun suono e conoscerli in alcun modo. Armida ci mise qualche minuto a farsi capire dalla schiava.
Poi la ragazza chinò il capo verso l'orecchio della vecchia donna di casa e sussurrò - e numi, era bellissima, e sembrava una bambina in quel suo stare immediatamente al piccolo gioco che non capiva ma aveva intuito essere tale – all'orecchio di Armida qualche cosa.
Chiamai Armida, che aveva le rughe del viso rinforzate e accentuate dal sorriso, gli occhi intelligenti che le ridevano, quasi fino ad azzerarne l'età e farla ritornare giovane e bella, alla tavola e le porsi di che scrivere. Le chiesi di scrivere i due nomi o quanto meno le lettere corrispondenti al loro suono.
Armida, con scrittura un poco incerta, tracciò due nomi, scrivendoli come si sarebbero scritti se fossero stati latini, erano un miscuglio di lettere che nella nostra scrittura non avevano significato, ma permettevano di essere riprodotti come suono.
Le feci cenno di portare assai vicina Rebecca, che non aveva allentato un attimo solo lo sguardo da ciò che la mia vecchia schiava aveva compiuto sul foglio spianato. Lo sguardo di Rebecca valeva tutto il gioco.
Ma fu quando presi in mano il foglio scritto da Armida e dopo una pausa esagerata e assai teatrale, le lessi i nomi del padre e del fratello, senza nemmeno io sapere io però, in verità, cosa leggevo, che gli occhi di Rebecca si aprirono come fiori. Grandissimi e di una bellezza infantile e sconvolgente.
Indimenticabile lo stupore che vi colsi, non li avevo abbandonati un attimo solo coi miei.
Stupore e poi quasi paura. O quanto meno reverenza.
Io risi e risero Armida e Alfio Decano.
Rebecca ci guardò in modo interrogativo, con un misto di emozioni che trasparivano impudiche, indifese e nude dal suo bel viso.
Fu così che Rebecca conobbe la magia. Della scrittura.
La sua intelligenza, e le pazienti e difficili spiegazioni in una lingua che lei padroneggiava assai poco, le fecero capire che quell'esclamazione, che tradotta in latino avrebbe significato - Dio - , con cui mi aveva chiamato, quando aveva sentito dalla mia voce i nomi dei suoi parenti che mai mi aveva detto, era quanto meno esagerata.
Il giorno dopo Armida, con pazienza che le conosco da una vita, su richiesta mia, anticipata da Rebecca stessa, aveva cominciato le sue piccole lezioni di scrittura.
Ed è per questo che non posso non stringere e baciare, divertito ed emozionato, Rebecca ora.
Ha sfilato la veste, è nuda.
E bellissima, una statua di carne temperata da una vita sana e senza vizio o ozio alcuno. Ha i capelli acconciati e legati in una piccola palla scura, due bacchette di avorio tengono salda l'acconciatura e offrono nudi collo e nuca.
Sul seno ha dei segni, incerti. Sulle coppe, sopra i capezzoli scuri e grinzosi che così tanto amano possedere le mie labbra, le mie mani, le mie dita e i miei denti.
Su ambo i seni, nel loro gonfiarsi di donna, asimmetrico, imperfetto eppure riconoscibile senza dubbio alcuno spicca il mio nome.
Scritto da lei, davanti allo specchio, alla rovescia, con mano resa ancor meno sicura dal capovolgersi dell'immagine. Riflessa, dal foglietto scritto da Armida e che lei serba appallottolato nella mano, stretta lungo il fianco dalla tensione. Si lascia guardare, gli occhi le si abbassano, la mano che regge il modello da cui ha copiato lettera per lettera è bianca dalla forza e agitazione con cui lo serra. Quasi avesse paura che la scritta di Armida avesse potuto tradirla se l'avesse lasciata libera di respirarle dentro il palmo.
Mi sono voltato. A lato...
Dopo aver sorriso.
Perché non è bello e dignitoso che una schiava veda una lacrima lucida. Tentennare incerta se evaporare negandosi, o liberarsi del tutto e scivolare.
Negli occhi del padrone, di un uomo della mia età e del mio ruolo.
Un Senatore dell'Impero.
Mi resta il dubbio, nel suo leccarmi gli occhi mentre la prendo, e la sovrasto, il sesso piantato nel suo accogliente ventre. Fermo, attendendo che lei cominci ad agitarsi, sinuosa e ansimante, per svuotarmi e goderne, facendomi godere del suo stringermi ritmato dalle onde sue, lì dentro.
Mi ha leccato gli occhi.
Avrà trovato il sale della lacrima che ho negato ai suoi, girandomi.
La scritta sul suo seno si è stinta contro il mio petto, sfregandolo. Lo vedo adesso, resta una macchia appena più scura della sua stessa carne, non più che il calco di lettere imperfette.
Lo vedo sollevandomi da lei, inarcato sulle reni, affondando in lei fin dove riesco, mentre inizio a riempirle di seme caldo il ventre.

Faber

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