E' l'amore più grande, infinito che ti possa nascere dentro. Vivi con la tua donna. E' facile adorarla, amarla, sentirla nel tuo interno ogni volta che l'accarezzi, la baci, la tasti, la prendi, la mordi, la penetri, le parli. Ma, presto o tardi, capirai che qualcosa ti manca. Concluso l'atto ti tormenterà ciò che è insano immaginare. Eppure lei ti bacia, ti accarezza, prende parte attiva al tuo godimento. Ma quando resti in quello stato di torposo abbandono che distende le membra, poco prima contratte dalla tensione del coito, dall'esplosiva ripetuta dell'eiaculazione, forse inizi ad avvertire che vorresti completare l'esperienze d'amore e non solo di possedere. Ti tenta la sensazione di essere posseduto, girato, afferrato, goduto oltre il limite del naturale senso. Di toccarti sui seni, nell'inguine stretto, di baciarti la bocca, leccando, con trepida lingua, i lobi auricolari, entrando nelle semiaperte labbra con le omologhe mani, labbra, lingua. Brividi sul collo; giungere, poi, stringendo le dure mammelle, irretite da - amore - , ad accarezzare i tozzi piccoli scudi, i tesi capezzoli scuri, rabbrividendo di ardore. Suggere vorresti il nettare che non possono dare. In quel frastuono di eretici sensi, la tua mano, le tue dita ritrovano il piano che dallo sterno s'affacia sul dorato riflesso dell'addome convesso. E subito sciamano urlanti guerrieri per le pelviche valli, nella ricciola scura foresta che nasconde un piccola despota che, assediato da tanta canea, s'erge in altera possanza afferrando il comando. Ma inutile è il grido. Sollevato da febbrili mani e gettato di sotto, sbucciato sul ruvido telo, sconcerto rimane mentre girato in alto è l'ano. Contenuto da lacci amorosi, sente un brivido arcano l'anello disposto ad assaporare quel che a languida amante nella cupa riposta valva è stato di solito e a lungo, introdotto. Condanna amara, prova la stessa contrappassica ansia, nell'attesa sospirosa, che si compia il sensuale progetto, che, dischiuso l'elastico opercolo, si disserri l'antica prevenuta pulsione e sconcerti l'anima desta a stranite passioni. E sentire, nella carne distesa, salire pian piano verso vertici acuti il doloroso senso di un piacere indefinito. E la verga si tende, e la testa insidiosa protende; nel socchiuso reattivo ocello la chiave si spende e disserra e divella. Come belva che serra nella ferrea presa la dura mascella, in attesa che la vittima esali ogni ultima vitale scossa, così giace ben ferma la fiera. Infida orrida, ogni tanto il crine scrolla per provare se si schiude la strada verso l'ultima meta. E la tenera braccata gazzella, ansimando, spossata , quasi non oppone più forza. Si spalanca la strada e avanza ormai fiero il grosso serpe dannato. Nell'intima cella, giunto al punto più alto dove il colon si piega, ormai urticato dalla lotta affrontata, essudato di prostatico liquido, sollecitato dalla protratta attesa, giunto al termine ultimo del finito budello, esplode in pirotecnico gioco e sobbalzando versa il fiotto copioso in sterile alcova. Ora giace l'androgino efebo cinto da danaica dorata pioggia e s'addormenta e sogna e il sorriso sottende la sua guancia rosata, le sue labbra dischiuse, il suo essere sciolto, la sua mano nelle nocche socchiuse trattiene il corpo che lo resse; che, nella difficile prova, lo perse.
Erma