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Racconto n° 3816
Autore: VioletErotica Altri racconti di VioletErotica
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La rugiada di Sarpsborg
Ero appena stata ad una festa di compleanno. Incredibilmente, ero riuscita a restare sobria. Nonostante la sua vista m'avesse fatta sprofondare nel più torbido degli oblii. Presi un paio di birre, per cominciare, poi un alcolico a bassa gradazione, poi un altro ed un altro ancora, e per finire bevvi due superalcolici in quattro sorsi, quattro. Non volevo vederla. Non dovevo vederla. Volevo obnubilare gli occhi, e con essi i miei sensi. Volevo creare una tale cortina di fumo, volevo erigere un tale muro, volevo frapporre una tale forza della natura fra me e Lei, da non poterla sentire nemmeno se avesse appropinquato soffusamente le sue morbide labbra alle mie. Ma non ce la feci. Anzi, quando mi si avvicinò per accomiatarsi, un fremito mi trapassò l'anima. Quel -Ciao, a presto!- pronunciato con un misto di puntiglio e tenerezza mi fece sciogliere come il miele sulla punta della lingua. Avanzò delicatamente la sua bocca alla mia gota, e ivi posò un bacio con casto candore. Mi fissò per non più di tre secondi, e in quegli eterni tre secondi i miei occhi, incrociando le sue pupille, espressero un inequivocabile segnale di resa. Se ne andò, prendendo a braccetto una sua amica, che nell'altra mano teneva ancora un bicchiere di liquore, tamburellando freneticamente le dita ad una ad una su di esso.

Quando oltrepassò la porta, e scomparve nella magniloquenza di quella notte, mi prese un sentimento di sconforto e sconvolgimento. Rimasi a lungo impalata di fianco ad un divano, non avendo la benché minima idea sul da farsi. Ero atterrita, inebetita, non pervenivo ad ibernare il mio cuore alla sua presenza, e nemmeno dopo. Poi venni spintonata involontariamente da una persona, e a quel punto rinsavii. Fece mille moine per scusarsi, ma non me ne curai. Dovevo uscire, dovevo andarmene da quella gabbia. Sapevo che la casa di Kristine aveva una porta sul retro che dava sul cortile, dal quale si accedeva facilmente alla strada principale del paese. M'allontanai quatta dalla stanza, facendo estremamente attenzione a non fare rumori. Da una parte, non volevo destare sospetti per i quali dover accampare le scuse più improbabili, dall'altra, non avevo la minima intenzione di perdere tempo nei soliti, infiniti saluti e convenevoli che annunciano il proprio ritorno a casa.

Dovevo farlo. Era il Momento. Attraversai la strada ad ampie falcate, come se fossi in marcia in un'esercitazione militare. Il paese era deserto, soltanto in rari e fiochi bagliori provenienti dall‘interno di alcune abitazioni si poteva intravedere in quei momenti una qualche parvenza di attività umana. D'altronde, non era quella la stagione per la vita notturna. Se ce n'era mai stata una, di vita notturna a Sarpsborg.

All'improvviso, scorsi un qualcosa di eretto a mezz'altezza su una specie di palo all'interno del cortile di una casa. Con tutta evidenza, era stato raccapezzato alla carlona. Sembrava uno spaventapasseri, ma non potevo dirlo con certezza, perché mi dava le spalle, e i miei occhi non s‘erano ancora totalmente adattati al buio. Di soppiatto m'accostai alla balaustra di assi di legno che separava il cortile della casa da quello dei vicini e cominciai a percorrere il viottolo che li separava. Volevo scrutare quel losco oggetto, mossa da un‘eccitata curiosità e da una curiosa eccitazione. Ma non potei, perché appena ne indovinai le fattezze, ci mancò poco che prendessi un colpo. Quella specie di manichino rappresentava a grandissime linee le sembianze di una leonessa rampante. L'assillo della mia memoria s'attivò il nanosecondo seguente. Il primo regalo che Lei mi fece era un peluche raffigurante proprio una leonessa rampante. Feci dietrofront e mi misi a correre all'impazzata. Non mi rimaneva che raggiungere la mia agognata casina. Il resto del tragitto lo percorsi d'un fiato, con una capacità polmonare da fare invidia ad uno squalo. Arrivai alla porta ansando, tirai fuori le chiavi dalla borsetta in tutta fretta e mi resi conto di non ricordarmi con quali chiavi s'apriva la porta. Le contumelie si sprecarono. Non mi sorprese affatto quel linguaggio triviale. Qualunque cosa facessi, quando pensavo a Lei, o erano infantili carinerie, o erano turpiloqui da osteria. Nessuna via di mezzo possibile. Finalmente trovai la chiave, la girai scompostamente nella serratura, spinsi vigorosamente la porta come se la stessi respingendo, ed entrai. Appoggiai la borsetta alla rinfusa sul primo scaffale che mi capitò a tiro, e mi sedetti al centro del divano. Ah, quant'era confortevole. Mi sentivo come una regina sul suo trono subito dopo la cerimonia d'incoronazione. Volevo rilassarmi un po', volevo gettarmi alle spalle tutte le ambiguità della serata. Ma dopo un po' i postumi dei bagordi della festa si fecero sentire, e cominciarono a martellarmi la testa. Cedetti quasi subito al torpore, stravaccandomi e abbioccandomi lentamente sul divano. Stavo per addormentarmi definitivamente, quando all'esterno si levò una folata di vento gelido che andò a sbatacchiarsi contro la finestra come una raffica di proiettili.

Mi accorsi di avere freddo.

Un freddo secco, diretto, penetrante. Accesi il fuoco, e dopo un po' di tempo la stanza era avvolta da un accogliente calore. Allora ebbi la Folgorazione. Mi tolsi la giacca, e mi detti della scema pensando al fatto che l'avevo scordata addosso nella foga del rientro, e ci avevo quasi dormito sopra. Poi levai il maglione girocollo, e poi tutto il resto, in una sequenza che raggiunse l'apice del suo turbinio nel momento stesso in cui m'ero completamente denudata. Solo i collant erano stati risparmiati dalla mia furia impulsiva e compulsiva. Mi fermai, con l'espressione e lo stato emotivo tipici di una fiera ferita. Girai lentamente il mio sguardo verso il camino, e altrettanto lentamente decisi di avvicinarmisi. E lì, in quello stesso istante, cantai il compendio alla mia follia come se fosse il miglior capolavoro mai prodotto dall'ingegno umano. Attizzai il fuoco, una, due, tre volte di seguito, fino a quando uno schizzo consistente di lapilli non abbracciò il mio ventre. Incurante delle scottature, toccai quei piccoli fuochi ancora vividi come per accarezzarli, e cominciai a spargere la sensazione che provocavano su tutto il corpo. Provai cinque minuti di immensa brezza corporea. Pensai a quant'è piacevole inabissarsi nei meandri degli inferi del dolore avendo l'assoluta certezza di assurgersi in breve tempo al più regale degli Eden del piacere. Mi coricai sul tappeto rosso nuovo di pacca. Dopodichè, intimai alle mie dita bruciacchiate di assaporare l'estremità della lingua. Al loro primo contatto con la saliva si liquefecero, ed io con esse. In breve tempo me le ritrovai in gola. Solo il pollice scampò a quella specie di amputazione afrodisiaca della mano destra. Ormai tutte quelle prominenze dell'arto superiore erano inondate fino alle nocche. Passai immediatamente dopo ai capezzoli, che già s'erano inturgiditi all'impatto fra i lapilli e il ventre. Me li strinsi con entrambe le mani, sentendo come l'azione della sinistra fosse più salda, ma anche più frigida, mentre le dita della destra spesso scivolavano, a causa della saliva, ma apportavano tutt'altra sensazione di gaudio. La prolattina sembrava danzare di gioia ad ogni colpo. Poi aprii le mani, e col palmo aperto attraversai di nuovo quel ventre antecedentemente vilipeso dalle sentinelle del fuoco. Sentivo ancora il calore emanato dalla pelle, ma era già lontano, quasi come fosse l'eco di un orgasmo passato. Mi arrestai ad un passo dal delta di Venere. Volli prima accerchiarlo, fargli capire cosa gli aspettava, metterlo in guardia dall'imminente battaglia. Titillai i peli pubici soavemente, come se fossero il diamante più prezioso al mondo. Poi esplorai altrettanto soavemente le zone ai lati delle villosità. Poi ritornai in mezzo, e cominciai a strusciare le dita contro la suddetta peluria con un movimento circolare sempre più virulento. Ed infine, il trionfo. Per più di venti minuti l'organo venne assaltato in ogni dove e con ogni mezzo, con tenacia, costanza ma anche con la stessa lungimiranza temporale con cui un guardiano sottopone a tortura un prigioniero al quale vuole estorcere una confessione. Venni copiosamente, abbondantemente, la mia passera fertile come un acquazzone primaverile, feconda come la nostra amatissima Madre degli Inferi. Tramortita da quell'accesso di esuberanza fisica, estasiata da quel profluvio orgasmico che aveva subissato tutte le mie carni, e infine spossata dagli accadimenti delle ultime ore, tornai barcollante a stravaccarmi sul divano. Dopo aver assaporato nei loro nitori tutti i retrogusti di quel piacere, assunsi un atteggiamento meditabondo. E pensai. E mi venne un'immagine alla mente.
Era una leonessa.

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