Nove e cinquanta. Avvio il motore e parto, nervosa. Gli occhi vivi d'adrenalina spaziano senza tregua: strada, macchine davanti, orologio sul cruscotto, strada, specchietto.
Parlo con te al telefono, guido.
Dall'uscita di casa al rientro tassativo ho settanta minuti.
Non di più.
Per arrivare da te ce ne vogliono venti, e venti per tornare. E' sabato mattina, niente traffico, e per mezz'ora con te passerei un giorno intero legata sull'asse della nave di Capitan Uncino.
Sorrido delle mie divagazioni. Strada, specchietto, orologio. Ti ascolto al telefono ma occhio e piede parlano troppo fittamente tra loro, perché io possa rallentare in te.
La neve abbonda ai margini, riduce la carreggiata e mi impedisce i consueti e vietati sorpassi , idioti allegri del sabato non sanno cosa mi tolgono mentre rallentano vetrina per vetrina. Siano maledetti loro i saldi le vetrine la neve e i semafori rossi!
Sono le dieci e venti e ancora non sono da te. Ma com'è possibile?!
Parlo con te e pesto i piedi nella mente, l'attesa non si fa ingannare e mi trafigge spina per spina, secondo per secondo, inesorabile.
Troppi giorni senza vederci, poi bocconi di tempo arraffati nelle ultime quarantott'ore, la smania di sentirti dentro mi mangia il sangue.
Dieci e trenta.
Corso Trevi, traffico da giorni feriali, fremo. Provo il controviale. Arrivo in piazza Belfanti, coda al semaforo. Sono in preda alla frenesia, l'impazienza ha il sopravvento sul buonsenso: controllo lo specchietto e innesco trenta metri di retromarcia per deviare nella stradina a destra. Taglio la gola mentalmente alla signora col bastone che attraversa, un suo passo ogni trenta battiti cardiaci.
Sotto il tuo ufficio non c'è parcheggio, lo trovo a duecento metri, dieci e quarantuno.
E' perfettamente evidente che sarò a casa in ritardo.
Avrei dovuto girare la macchina dieci minuti fa e tornare indietro.
La biancheria intima che ho indossato per te, i ricami raffinati in blu sul tulle nero leggero, mi impediscono di farlo e mi portano fino al tuo portone, le conseguenze si gestiranno.
Sono ancora al telefono con te. Salgo le scale al trotto, entro, chiudi la porta.
Finalmente.
Il tempo di un bacio, ti ho detto.
Mentre tu giri la chiave io chiudo gli occhi: lasciamo entrambi tutto il resto fuori, solo le tue labbra sulle mie. Borsa per terra. Cappotto per terra. Non ho tempo, devo andare. Lo sapevo, le tue mani sotto il maglione ampio, bianco e morbido, un invito nel quale ti saresti tuffato senza possibilità d'errore.
Maglione bianco, tulle nero.
Lo senti sulla mia pelle, i tuoi polpastrelli imparano i disegni di seta e la voglia che già ti scorreva nelle vene ci divora entrambi. Né tu né io ora possiamo fermarci. Mi trascini, se non ricordassi la sequenza delle stanze non saprei ricostruire dove. Dritto, dritto, dritto, destra in fondo. Ho ancora le palpebre serrate e le labbra sulle tue, non voglio sapere, non voglio null'altro che te. L'impatto forte del muro gelido sulla mia pelle mentre mi premi contro la parete, è la prima variazione. Mi abbassi i pantaloni, mi infili le dita dentro, tiri fuori indice e medio bagnati e me li fai leccare mentre a mia volta ti slaccio i jeans.
Non ho scordato che non dovrei essere lì, la fretta mi rende più avida e libera, di prendere, di volere.
Apro gli occhi, finalmente, e nella penombra dell'ufficio chiuso vedo le scrivanie lucide della sala riunioni. Segui il mio sguardo ed è un attimo voltarmi e farmi chinare sul piano di legno. Giochi con i miei buchi, con le mie voglie, io mi prendo più diritti di quelli che di solito amo cederti e mi volto. Schiena sul tavolo, mani aggrappate al bordo per ancorarmi, sotto i tuoi colpi. Lo sguardo corre sull'arco dei miei piedi, velati di nero, appoggiati alle tue spalle.
Sei in piedi davanti a me, me lo infili dentro e inizi a spingere, entri ed esci, entri spingi ed esci, entri godo ed esci, entri, stai dentro, spingi fino a farmi male e godere e volere e urlare, e venire, con te, terremotata dal piacere e dalla voglia che mi esplodono dentro quando ti sento venire.
Un momento solo puoi accasciarti su di me. Non posso fermarmi!
Iniziamo a ridere.
Mi passi dei fazzoletti, cerco di tamponare allagamenti liquidi miei e tuoi. Miei e tuoi i baci, mentre mi allaccio i pantaloni lasciando slacciato sfacciato il body che mi strizzava poco fa, ci metterei troppo a trovare tre bottoni.
Sono alla porta, - Ti chiamo dall'auto - , corro giù e fuori e alla macchina. Dio che fastidio la stoffa che mi sfrega le cosce!
Inserisco la chiave: dieci e cinquantatré. Accendo il motore e prendo il telefono, premo due volte invio: è nostra, l'ultima chiamata.
Mameha