Siamo qui. Tu ed io. Come sempre facciamo da molto tempo.
Ricordo la prima volta che entrammo da quella porta del piacere. Paura era la mia.
Anche tu eri inquieto. La curiosità e il desiderio di trasgredire ci ha resi complici.
Forse non ci bastava l'amore scambiato, ormai, solo per dovere coniugale, per copulare, per toglierci la voglia di sesso. Forse anche le nostre reciproche tensioni per gli inquietanti obliqui amori che ci rendevano diffidenti l'uno dell'altro, temendo per i nostri mai completamente scoperti né ammessi tradimenti. Arrivavamo ad evitare di guardarci negli occhi per timore di leggere inconfessabili adulteri. Il timore che l'altro avesse avuto esperienze più soddisfacenti delle proprie e poter scoprire di riversare di colpo quel sentimento rancoroso, ritenendolo il colpevole del proprio fallimento, ci feriva profondamente ed ha continuato a farlo fino a quando non abbiamo scoperto l'aspetto dell'amore licenzioso, in fondo, da entrambi rincorso nelle scapestrate avventure.
Dovevamo, quindi, entrambi essere coscienti dei nostri tradimenti e sbatterceli in faccia come mai avevamo fatto prima. Solo così avremmo potuto perdonarci scambievolmente e finalmente vivere in pace con le nostre coscienze, complici dei nostri scambi carnali.
Quella lontana sera avevo paura, sì! E tu fingevi sicurezza. Io mi appendevo tremante al tuo braccio e sentivo il tuo cuore battere a perdifiato nel torace. Anche tu temevi, anzi, eri terrorizzato, ma lo nascondevi con la tua spavalderia abituale. Sei bravo a ingannare, ma io non ti sono da meno. Né mi cedevi il passo, né io te lo cedevo. Imperterriti continuammo e passammo il varco.
Volevi una guida, un appoggio, un'esca che attirasse altre donne, altre femmine da sacrificare sull'altare della tua libidine.
Ebbene anch'io, pur non sentendone l'impellenza, volevo giocare a vendicarmi della tua arrogante bassezza che mi aveva condotta, consenziente, ma titubante in quel posto.
Tu cane, io cagna. Tu lenone, io baldracca. Tu verme, io serpente. Tu guardone, io fattrice. Tu stallone, io giumenta fra le altre.
C'è sempre una coppia più esperta che si avvicina agli indecisi agnellini. Ci venne incontro, allora come ormai noi siamo abituati a fare con i novellini. Navighiamo sicuri incontro alle acerbe speranze di timorosi iniziandi. Conosciamo la scaltra psicologia del veterano, perché ci fu insegnato quella sera e nella lunga frequentazione di quei postriboli di lusso, in cui nessuno si prostituisce, ma tutti perdono la loro virtù e si concedono come prostitute e prostituti, pagando profumatamente l'ingresso. L'ultima frontiera era infranta da tempo e ci avviamo sempre più verso la ricerca dell'impossibile.
Quella sera, ricordo ancora oggi, come sposi novelli, circuiti (da dolci parole maschili, io - da allettanti promesse femminili, tu) ci ritrovammo a baciare i sessi dei nostri estemporanei commensali. E bevemmo alla loro tavola. E brindammo con i loro liquidi umori. E concedemmo le nostre insaziabili foie condivise dai nostri cortesi, affamati ospiti. E fu tutta una festa, un deliquio, un sorseggiare e strappare di morsi su seni oltraggiati, di carezze e languori, di attese che mi penetrasse l'estraneo turgore o che tu concedessi il saldo bastone. Io sapevo come porcamente amavi, tu sapevi come, io cagna, latravo, ma quella sera non mi avevi a tua soddisfazione. Potevi soltanto ascoltare come sapevo succhiare, come mi dimenavo sotto l'ossesso di quel duro cannone che mi entrava e mi usciva nel profondo del cuore. E non eri certo tu a godere della mia propensione.
Ti vedevo, di sottecchi, mentre palpeggiavi le grosse mele della tua concubina - mi guardavi e come fido palafreniere porgevi la staffa al mio cavaliere. Non potevi staccare lo sguardo dalla mia fessura che s'apriva e sussultando ingoiava nella profonda, sanguigna apertura, tutta intera, lentamente l'armatura del potente guerriero. E la lama mi entrava nella carne e tu la sentivi violare la tua mente.
Ed io, di converso, vedevo la tua forte spranga svellere l'ardente tua prigione (la dama affannata) che s'apriva e si concedeva al mio cocente dolore.
Fra ansimi e spasimi, fra drammi e piaceri consumammo tutto quanto in poco più di due ore.
Ci trovammo alla fine fra noi che facevamo all'amore come una coppia di sposi novelli, anzi come una consumata coppia di amanti sempre più infuocati dalla nostra trasgressione e, finalmente, felici di esserci riconciliati dopo i tormenti dei reciproci tradimenti.
Da allora, quando sentiamo che stiamo per cedere e tradirci, noi ci rechiamo di concorde assetto a quell'incontro regretto, a quell'ultima spiaggia che di nuovo ci salva.
Quante volte un bell'uomo, sia pure pelato, sia pure canuto, sia pure con i rotoli di grasso intorno alla vita, con il dardo storto o pendente o troppo corto ha salvato il nostro matrimonio. Quante donne evolute, coi capezzoli ardenti, con non troppo evidente cellulite, con voluttuose labbra carnose di bocca e di sesso hanno assunto il tuo membro. Quante pulsioni, quanti brividi, emozioni, quante lubriche sensazione hanno devastato gli aperti nostri opercoli sempre pronti a concedere i loro favori da ogni verso, in ogni senso. Ci stringevamo e ci strusciavamo contro i momentanei sostegni del nostro piacere.
Non occorreva scambiare le impressioni di quanto avevamo concluso. Sapevamo entrambi. Era lì, sotto gli occhi dell'altro. Tu sapevi, io sapevo. Io sentivo, tu sentivi. Io godevo, tu godevi. Io non ce la facevo e arrivavo lasciando quella piccola bava filata, tu scoppiavi e dilavavi dov'eri, nel profondo del fosso, nel cavo più aperto, fra le cosce, sulle pressanti mammelle.
Poi a notte inoltrata, rincasati, stanchi e spossati, ci addormentavamo mano nella mano come innamorati.
L'indomani sera ci concedevamo il piacere rapito nelle esperienze maturate e ciascuno sapeva ogni mossa più ardita perché l'altro prendesse tutto il bene del mondo nel giusto verso e si sentisse completo nello spasimo acuto dell'amore ritrovato.
Non si condanna l'Amore neanche quando sa di depravazione.
Ora stiamo aspettando che venga l'infermiera per il normale prelievo semestrale.
Entrambi temiamo la malattia più infernale. La paura ci attanaglia, fino a quando conosceremo il sospirato esito che ci dice soltanto che sei mesi fa fummo saggi, ma non ci dà la certezza che dopo null'altro sia accaduto.
Però a noi basta quello per continuare a immolarci sull'altare della lussuria. Non possiamo più frenare le nostre menti, i nostri corpi abituati a fremere nel piacere.
Non è facile avere tutte le accortezze prescritte. Quando la smania ti prende e non vedi più niente, accarezzi il suo corpo e lo senti tuo. Gli prendi il membro ed è come se tu lo schiodassi dal suo complesso per prenderlo in te e consumarlo nel tuo. Non sai neanche più di chi sia. Giovane, grasso, magro, vecchio, bianco, giallo, nero. Non ha età, non ha colore. Io lo sento soltanto, lo avverto, lo accolgo. Mi riempie la bocca, la gola. Penetra negli anfratti più intimi, nelle dilatate ansimanti aperture, fra le cosce, nel mio ventre, nel mio anale pertugio.
E lo sento che mi fruga in ogni dove e vorrei alla fine fermarlo, ma, anche, che proceda più in fretta. Vorrei schiodarlo da me stessa e insieme infilarlo più profondamente giungendo all'inferno, fino a farmi male, fino a farmi piangere, fino a non sentire altro che... piacere. Che dolore, che godere, che spossato infinito disciogliersi dell'anima...!
Anche tu con la bocca della tua puttana fai spellare tutto quanto l'inclito spiedo. E la pelle si scosta dal tuo glande e la bocca dilava la canna che s'arrossa. E ti esce il prostatico liquido che le bagna le labbra. E la prendi dall'anca e da dietro ti dimeni sprofondando pian piano nello sfintere divaricato, mentre lei sussulta, provocando il risucchio più acuto del perforante martello. E rimane estatica, afferrata alle coltri, come barca ancorata dalla furia del vento scrollata.
Questa è la tempesta d'Amore che ci trascina e travolge e ci spinge a correre il rischio. In quei momenti di sublime rapimento dei sensi non ci importa il pericolo corso, anzi, la paura del domani ci spinge a trovare nell'oggi il piacere che ci prende e ci danna.
"Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia. Chi vuol essere lieto sia, del doman non v'è certezza".
Crisalide