Lo conoscevano bene, non era stato uomo arrendevole, persino dopo la sua scomparsa.
Il giorno di quello che sarebbe stato il suo sessantesimo compleanno, un plico era arrivato in università. Ripulito frettolosamente, appariva ricoperto di francobolli e di indirizzi semi-cancellati; proveniva da qualche angolo della foresta amazzonica e conteneva essenzialmente pochi fogli ed un disegno. Il professor Cyril si era commosso, ma non si illudeva di rivedere il vecchio amico, non dopo tutti quegli anni; era certo si trattasse della calligrafia di Thomas Garnett, inoltre il disegno riproduceva le fattezze delicate di sua moglie Rose. La dolcissima Rose. Nessuno sapeva quanto gli fosse costato vederla partire, ma lei si era innamorata dell'avventuroso testardo studioso dalla risata pronta che era stato il suo miglior amico dai tempi del college.
Dall'arrivo del plico si era buttato nell'organizzazione e sei mesi prima aveva richiesto i fondi necessari a localizzare l'area in cui Thomas era sparito, lasciando un fax pieno dell'eccitazione dello scienziato ed un breve, crepitante messaggio radio. Dopo vent'anni erano pronti a seguirne le tracce con la speranza di trovare la sua ultima scoperta, un fiore e forse un mito, quello di sconfiggere il cancro.
Mark si rilassò sul sedile vagamente scomodo, ammirando il serpeggiante verdazzurro Rio delle Amazzoni che l'elicottero stava sorvolando. Pulì gli occhiali da sole, ricordando le ultime parole che Cyril gli aveva rivolto, congedandosi.
- Qualunque cosa ci sia, voglio essere il primo a saperlo.-
Era lo stesso tono che aveva usato con i suoi migliori studenti, quando li incoraggiava a far del loro meglio, oltrepassando quelli che ritenevano i loro limiti, come amava dire. Mark lo ricordava ancora. Come antropologo, avrebbe raggiunto il team di studiosi incaricati di studiare la tribù locale per garantire il sogno del vecchio amico del professore. Era lealtà, oltre il tempo. Era qualcosa che Mark capiva e condivideva, oltre le ragioni della scienza.
L'atterraggio accarezzò il terreno nei pressi di un piccolo capanno, una jeep parcheggiata accanto a due uomini in attesa. Uno di loro sembrava nervoso, spostava incessantemente il peso sui piedi, l'altro agitò la mano in un silenzioso benvenuto. Mike, la lunga mano della Fondazione, non perdeva tempo. L'accoglienza fu rapida; poche parole per presentare il dottor Feldman, aggiornare le informazioni che gli avevano faxato e che aveva letto in volo e Mike era già intento nel garantirsi i diritti, .caro ragazzo. Raggiunsero il campo dove un tramonto fiammeggiante avviluppava le baracche come un amante.
Feldman pareva a disagio.
- Abbiamo un imprevisto. Questa...ragazza è strana...non è del tutto indigena. Abbiamo dovuto tenerla controllata e ...sedarla. Era agitata quando l'abbiamo trovata. Ora, però, è tranquilla, non dovrebbe darle problemi. Se vuole seguirmi.
Mark lo seguì senza parlare verso una specie di celletta, ricavata nell'ufficio. Vide una creatura seduta, quasi accovacciata, le mani sul pavimento, come una pantera pronta a scattare. La ragazza, dunque, con una ridicola tuta da lavoro di tela.
- Dovevamo vestirla in modo più accettabile.
Feldman commentò brevemente così l'occhiata di Mark ed iniziò a leggere la relazione che descriveva il ritrovamento di questa creatura nella tribù dove il fiore di Garnett era considerato un toccasana naturale. Una femmina caucasica bianca, alta un metro e settanta, in eccellente stato di salute.
- Non ha pronunciato una sola parola in nostra presenza, anche se è in grado di comunicare con la tribù; lo abbiamo accertato grazie ad un interprete della missione dove il plico è stato ritrovato; sembra convinta di possedere la terra dove abbiamo trovato le sepolture del professor Garnett e della moglie.
Feldman fece una pausa che sottolineava come anche lui avesse sperato di ritrovare lo scienziato. Mark aveva notato il quasi impercettibile scatto che la testa della ragazza aveva avuto all'udire il nome di Garnett. Aveva un viso minuto, coperto di fango come i capelli lunghi che portava intrecciati e che aveva lasciato ricadere come una barriera protettiva. Intorno a lei avvertiva un odore dolce, ma non sgradevole. Argilla fresca. Su una pelle pulita.
Ora lo fissava da sotto i capelli con lo stesso sguardo di uno schermidore che aveva visto una volta: nessuno poteva riuscire ad aprirsi un varco nella sua guardia.
Feldman raccolse le carte e si accinse a congedarsi.
- Siamo contenti del suo arrivo, le ho fatto preparare un alloggio sull'altro lato dell'accampamento, ma se avesse bisogno di qualcosa, non esiti a chiedere.
- La ringrazio.
Feldman uscì. La ragazza si alzò con un movimento fluido e rapido insieme, fissandoli apertamente con due occhi grigi profondi e luminosi insieme.
Due occhi che Mark aveva già visto, ma che non lo sorpresero tanto per la somiglianza con quelli di Rose Garnett, quanto per la comprensione che vi aveva letto. Lei capiva e lui avvertì la sua frustrazione nel vederlo restare lì. Non se lo aspettava. Mark decise di ignorarla per provare ad abituarla alla sua presenza. La vide studiarlo nel riflesso di uno specchio, mentre cercava di isolarsi nella penombra che avvolgeva l'ufficio a poco a poco, ora che il sole era tramontato.
Era tornata a sedersi sul pavimento con un movimento lento. La tensione contraeva i muscoli lunghi delle gambe, ripiegate sotto il corpo.
Mark si tolse la sahariana; con assoluta noncuranza aprì la cella e sedette al computer, dandole le spalle e iniziò a scrivere, studiandola nello schermo. Sapeva bene di trovarsi tra lei e la porta dell'ufficio; aspettava una reazione che non veniva. Si studiavano a vicenda. Altro che selvaggia, applicava una sua strategia, imitandolo.
Quando la stanchezza iniziò a farsi sentire, Mark si alzò per chiudere la cella, secondo il regolamento che Feldman gli aveva lasciato. La ragazza fece un balzo per sottrargli la chiave, ma lui era pronto e si limitò ad alzare un braccio. La sentì appoggiarsi a lui per una frazione di secondo, per recuperare l'equilibrio, poi la creatura deglutì la rabbia e tornò nella cella, nel buio. L'uomo la guardò e impulsivamente uscì nella notte, lasciando la cella aperta. Aveva bisogno di una sigaretta e di riflettere.
Un silenzio immobile tutt'intorno, rotto soltanto dal grido roco di qualche uccello. Le stelle occhieggiavano tra le nuvole, creando ombre argentate e nere sulle foglie della vegetazione. Udì un passo lieve nella radura e seppe che era lei. Era nuda, se si eccettuava una specie di corta chadrah che le avvolgeva il corpo dal petto ai fianchi. Era inginocchiata accanto a due tombe coperte di fiori, accarezzava l'erba, mormorando una nenia per bambini. In inglese. Mark non ebbe più dubbi, mentre ascoltava la sua voce per la prima volta.
Il canto finì e sentì i suoi occhi d'argento che si fermavano su di lui, attendendo che la riportasse nella cella. Mark restò immobile, finchè la ragazza scomparve nelle ombre della foresta, poi tornò verso il suo alloggio, certo che lei lo stesse osservando.
Trovò la sua borsa da viaggio ai piedi della branda e un piccolo ma confortevole bagno nel retro. Si spogliò, godendo la frescura dell'acqua sulla pelle, rilassandosi a poco a poco.
Una mano sottile entrò nella tendina di plastica della doccia, stringendo una piccola radice chiara tra le dita. Mark la prese ed inizio a strofinarsi con quel sapone naturale, come avrebbe fatto un membro della tribù. Aveva un profumo fresco, delicato, che ricordava quello della pioggia sulle foglie nuove. Era inteso come un dono e divenne una sorta di rituale nelle notti a venire, come pure la sua presenza discreta mentre lui lavorava.
Mark cercava di rispettare il mondo della tribù che l'aveva allevata, ma era solo questione di tempo. I risultati delle analisi chimiche sul fiore di Garnett erano quasi ultimate. Feldman e Cyril volevano che tornasse in Inghilterra.
Ai loro occhi il diario ritrovato della signora Garnett le aveva restituito un'identità, diversa da quella di "creatura". Si chiamava Helene e per sei anni era stata una bambina inglese, prima di perdere i genitori, diventando la Bambina Bianca della Foresta, come la chiamavano gli indigeni che l'avevano cresciuta.
Mark sapeva che presto sarebbe tornata alla civiltà e per questo cercava di parlarle in inglese ogni giorno, per renderle meno scioccante il distacco. Ritrovava ciò che era, nei ricordi e nelle storie udite da piccola. La sua mente curiosa seguiva i sentieri che i suoi genitori avevano avuto appena il tempo di mostrarle, il suo sguardo diventava più profondo quando rifletteva, per illuminarsi poi in un sorriso. Helene aveva un suo luogo speciale dove nuotava e che aveva deciso di dividere con lui un giorno che la cisterna si era rotta.
Si era tuffata da una roccia, invitandolo con un gesto della mano. Si era spogliato pensosamente mentre lei lo aspettava, galleggiando come una ninfea nel mezzo del laghetto, con la pelle e i capelli dorati dal sole ormai liberi del fango in cui si nascondeva prima di capire cosa quegli sconosciuti volessero da lei. Scoprire la pelle di lui uguale alla propria aveva trasformato la fiducia in un riconoscimento istintivo.
Era quasi ora di cena, ma anche in quel pomeriggio ambrato si erano attardati al lago; Helene era come una ninfa inconsapevole che scompariva ridendo sotto la cascata appena lui si avvicinava, orgogliosa di non avere rivali nel nuoto. Come un cucciolo di delfino, gli guizzava accanto per gioco e Mark continuava a ripetersi che, a dispetto della sua bellezza e della sua mente agile, era una bambina sotto molti aspetti. Quando glielo permise, le nuotò accanto.
- Volevi mostrarmi qualcosa?
- Sì, la mia grotta.
Gli nuotò sotto, verso un passaggio tra le rocce. Quando riemersero nella luce cristallina, Mark si guardò intorno e comprese. La grotta era la sua casa, la sua memoria, colma com'era di oggetti.
- I tuoi genitori vivevano qui?
- Nuotavano qui. Mamma e papà, insieme.
Gli mostrò due fotografie sbiadite, senza poter aggiungere altro. Mark tese una mano per confortarla e lei vi poggiò la guancia. Egli poteva sentire il calore umido delle lacrime sul palmo e un'ondata improvvisa di tenerezza si unì agli altri sentimenti che lei gli ispirava.
Più per un naturale istinto di abbandono che in un gesto di seduzione, la sentì premersi contro di lui e cercò di ignorare la sensazione di calore improvviso che gli invadeva le membra.
Helene strofinò il naso sul suo collo e lo guardò negli occhi. Gli ricordava i gesti di affetto che aveva studiato nella tribù. Stava cercando di comunicargli qualcosa nel solo modo che conoscesse. Il suo profumo, qualche fiore che lei usava con la radice di saponaria, gli saliva alle narici rendendogli confusi i pensieri. Mark cercò di ritrovare l'autocontrollo con la disciplina che la scienza gli aveva inculcato, ma lei notò un rivolo d'acqua sul suo stomaco e si mise ad inseguirlo con la punta di un dito bagnato.
- Helene.- udì una voce strozzata che non gli pareva neppure di riconoscere.
- Mark?- Lei lo fissava interrogativamente, sorpresa, innocente.
Mise a fuoco la sua bocca morbida e, senza rendersene conto si trovò a premerla con la propria. Mark sentiva le labbra di lei muoversi piano ed il suo corpo farsi più caldo. Non gli sfuggiva, aspettava, curiosa, tenera. Si sentì perduto in quel abbandono fiducioso, si aggrappò alla logica.forse lei non sapeva bene cosa stava accadendo.
Nonostante la sua bellezza, era troppo diversa per essere coinvolta nelle tradizioni indigene. Era stata una bambina straniera ed ora, non ancora donna, era tra le sue braccia.
Mark lasciò scivolare le mani lungo le sue spalle.
Helene sorrise, raccogliendo sulle labbra una goccia d'acqua che gli scendeva dai capelli, poi appoggiò l'orecchio al suo cuore e il suo battito parve riverberare attraverso tutto il suo corpo sottile; gli prese la mano e la posò sul proprio cuore, nell'incavo delicato tra i seni. Se pure si rendeva conto di ciò che stava bruciando tra loro, nessun condizionamento culturale aveva mai sfiorato la sua anima.
I suoi occhi d'argento gli dicevano come lui fosse il compagno che aveva scelto. Le sue mani si tendevano ad abbassargli la testa per riprovare il bacio di prima. Una cosa che non poteva immaginare, era l'inferno in cui lui stava dibattendosi, tormentato dal bisogno di lei e dalla propria coscienza.
Mark non voleva spaventarla, ma le sue labbra inconsapevolmente tentatrici giocavano con la lingua che lui non poteva più trattenere, mentre il sangue iniziava la sua corsa folle, annegando la ragione in un istante. Quando le prese la bocca, Helene non si mosse se non per avvicinare il proprio corpo a quello teso di lui, in un incastro perfetto, così naturale, spontaneo, com'era lei.
Fu l'ultimo pensiero consapevole prima che lui le carezzasse i seni che aveva liberato dalla tunichetta e che si tendevano verso le sue dita, mentre entrambi scivolavano in ginocchio. Helene esplorava il suo corpo come vedeva fare a lui e rise mentre scioglieva i suoi boxers.
- Non ti piacciono molto i vestiti, vero? chiese, ricordando la tuta del primo giorno.
- Mi piaci tu., replicò piano lei, senza interrompere la scoperta che andava compiendo del suo corpo.
Mark la baciò con decisione, premendola sulle foglie, assaporando con le mani e con le labbra. Helene gemette nella sua bocca, ansimò sotto il suo tocco, dimenticando di imitarlo, travolta in una lotta senza vincitori, una danza che non aveva mai danzato.
Mark si controllava a fatica, sfiorandola tra le cosce fino a bere un gemito sottile e tremante, mentre scivolava sopra di lei in un movimento lento e inesorabile.
Helene trattenne il fiato, guardando il riflesso dell'acqua sul volto intento di lui.prima che la baciasse ancora e ancora, uniformando i baci alle spinte con cui la prendeva, sospirando quando lei iniziò a ricambiarlo, intrecciando le gambe sulla sua schiena.
Un piacere denso le scioglieva i fianchi, cancellando ogni altra sensazione, mentre lui rallentava i movimenti e lei cercava di trattenerlo in un istinto antico quanto la grotta intorno a loro. Mark la sentì inarcarsi e allora si concesse di lasciarsi andare a sua volta, stringendola come le memorie preziose che il suo cuore racchiudeva.
Non riaprirono gli occhi per minuti infiniti, godendo il calore che li divorava e quello dei loro corpi ancora uniti. Assurdo per quanto potesse sembrare, Mark non poteva pensare di lasciarla andare, né ora, né dopo. Non era solo Helene ad aver bisogno di lui, anche se non era pronto a dar un nome a ciò che provava.
La Fondazione.Cyril avrebbe pensato a sistemare le cose, ce n'era abbastanza per tutti. L'avrebbe protetta per non perderla.
Ogni pensiero svanì quando la sentì muoversi contro di lui. La figlia della foresta dormiva tra le foglie e tra le sue braccia.
Madkitten