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Racconto n° 3999
Autore: Amelia Altri racconti di Amelia
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Masquerade
Selvaggia guarda le onde arruffate e verdastre ergersi spumeggianti contro il grigio del cielo. La schiuma del mare è un orgasmo che viene dal profondo. Il libeccio le aggroviglia i lunghi capelli, le narici sature di aria pungente che sa di libertà. Fa un cenno con la mano al vecchio Angiò, che passeggia sul lungomare con Jack, l'anziano pastore tedesco. Lui risponde al saluto, agitando il bastone. Vecchio eccentrico, con lunghi baffi, panciotto e battuta pronta. Ne ha conosciuti parecchi di personaggi così da quando Selvaggia si è trasferita in questo porto di mare, un anno fa. Si riempie i polmoni dell'odore acre di salsedine, che assomiglia a quello della fica, sorridendo a quella città che l'aveva accolta aprendo svogliatamente le gambe come una puttana. Con la sua semplicità, l'odore del salmastro, la pigrizia fantasiosa, l'arguta e godereccia visione della vita. Qui aveva ritrovato se stessa, dopo anni di agitazione febbrile e sensi di colpa, sacrificati sull'altare del dovere. Con l'agenda che le programmava la vita a venire, mentre ogni mese una nuova ruga le appariva sul volto. Basta. Selvaggia aveva detto basta a quella vita e, fedele all'etimo del suo nome, aveva preso i suoi piccoli per la collottola, come una leonessa, ed era andata a vivere in quella piccola città di mare. Una città senza storia. Non un monumento, una chiesa, un museo ad attrarre i turisti, ma solo sabbia, anzi, rena, e coriandoli. Ineffabile ed evanescente, pacchiana e puttana, anarchica, colorata e becera, superficiale, ridanciana ma vera.
Lì aveva incontrato il suo dio del mare. Diciassette anni meno di lei. Bello da far male. La battigia, il mare a leccare i piedi con onde fresche e improvvise, il suo sorriso perfetto a riscaldarle il cuore, la dirompente allegria, le sue mani che le afferravano le natiche dicendole - bella la mia troia - .
Andrea era sensualità allo stato puro. Un elemento della natura, come il mare, il sole, il vento. Con i pantaloni calati sui fianchi al limite della decenza, sempre scalzo. Lo sguardo sfrontato che lei in pubblico non riusciva a reggere, quelle iridi color dell'ambra, delle nocciole, quegli occhi caldi come l'estate. Andrea che ironizzava sulla canzone di James Blunt Simona, you are getting older. Proprio quello che ci voleva. Una relazione leggera ed effimera, che l'aveva fatta ringiovanire più di un'iniezione di botox. Ma alla fine lui si era innamorato di lei. Di lei che aveva solo un anno meno di sua madre, di lei che - trovati una ragazza adatta a te - , di lei che - e fra qualche anno che fai, ti scopi mia figlia? -
Selvaggia lo aveva tenuto nascosto per mesi, poi Andrea si era offeso e allora lo aveva mostrato, quel bel ragazzo spavaldo e infantile che non teneva mai ferme le mani in pubblico, che la metteva in imbarazzo quando era con gli amici più vecchi, intellettuali e un po' snob. D'altronde Andrea era un giardiniere, con le mani sapeva fare cose meravigliose, con le parole un po' meno, ma l'aveva voluto lui. Essere esibito. Come un gigolò. Anche lei provava sentimenti, anche se non osava ammetterlo. Un giorno si armò di cinismo e durezza e lo convinse che per lei era stato solo un diversivo estivo, un giocattolo da mettere in soffitta al primo acquazzone d'autunno.
Da allora Andrea violentava spesso i suoi pensieri, e nei momenti meno adatti. Giovane uomo che infrangeva ogni regola con fanciullesco distacco, che non conosceva confini fra giusto e sbagliato.

Un suono impercettibile la distoglie dai ricordi vividi di muscoli tesi e spinte, baci umidi e risate giocose. E' un sms della sua amica Ilaria: - Stasera c'è il corso mascherato in notturna. Non inventare scuse. Dì alla tata di restare a dormire con i bambini e vieni. Ti mascheri da pantera, vero? Io da diavola, ma non ho gli stivali rossi. Che dici, mi metto le scarpe? -
S.: - Ho quarant'anni, Ila... -
I.: - E allora? Io trentasei e ho il culo più basso del tuo! Alle nove ti vengo a prendere, mangiamo qualcosa da Nènè e poi via.... a ballare in mezzo alla strada, come a Rio. -

Selvaggia e Ilaria si dimenano come due invasate, avvolte dai fumi soffiati da bocche di fuoco, trascinate da un fiume colorato di gente di ogni età, puzza di bomboloni fritti ed enormi faccioni di cartapesta. Attraversano il ventre gonfio di questa città indolente, guardando straripare le sue variopinte budella festose: Costumi scintillanti, effetti speciali, scimmioni terrificanti e favolose drag-queen.
All'improvviso Selvaggia vede il suo dio pagano. E' una femmina, una donna elegante e strafiga. Bellissimo. E la virilità che s'intravede sotto la seta strusciante dell'abito viola lo rende ancora più sexy. Lo fissa come a volerlo inghiottire, poi la folla la spinge di lato, lei cerca di resistere ma un Luigi XIV e un cardinale Richelieu la avvolgono in un abbraccio soffocante e la portano via, issandola su un carro di esima categoria, da cui lei scende sdegnosa e incazzata. Perché ha perso il suo dio del mare. Perché ora brama le sue labbra, il suo odore, il suo cazzo scalpitante.
Continua la rumba. Dopo un' ora Selvaggia ha i crampi ai polpacci e un conato di vomito. Il cibo, l'alcol, le canne passate dai pagliacci, il freddo allo stomaco. Maledice i tacchi dodici ed entra traballante in un bar con la saracinesca a metà. Ordina una camomilla con tanto limone e zucchero. Ha una maschera total black da pantera con guanti lunghi di latex, abitino stretch e stivali altissimi lunghi fino alla coscia, calze a rete, trucco pesante, i capelli nascosti dentro la maschera da felino. Prova a chiamare Ilaria, che non risponde. Il proprietario del locale, suo amico, la avvolge in una coperta e le dice che se vuole può stare un po' lì al caldo mentre lui chatta al computer, per smascherare i falsi bisex. Lui è un'integralista. O sei etero o sei gay. Chi si dichiara bisessuale in rete, è perché non ha il coraggio di ammettere la sua omosessualità. Selvaggia ringrazia e si rannicchia come una bambina, e dorme. Si sveglia, con l'impressione che siano passati solo pochi minuti. Dà un bacio all'uomo che ha vegliato il suo sonno. Quando esce realizza di aver dormito a lungo. La folla è rarefatta, la musica più melodiosa, le luci sui carri spente. Le maschere di cartapesta sono inquietanti, ferme nelle pose più assurde, accattivanti e sinistre. Le bocche rosse, gli occhioni spalancati con lunghe ciglia sospese, le braccia aperte. Un mondo bloccato, provvisorio, affidato a rituali pagani. I carri avanzano silenziosi verso il grande hangar, loro albergo per la notte. Selvaggia cammina lungo il viale, schivando gruppi sparsi di ragazzi sballati, maschere ubriache e vocianti. Ovunque lattine vuote, cartacce, schiuma colorata e coriandoli. La vita deve essere così, come questi impalpabili piccoli cerchi di carta. Un'allegra invenzione, una festa perpetua.
- Bella la mia troia. -
Si volta ma non vede nessuno. Un carro cupo, diverso dagli altri le sta passando accanto. Di una decadenza barocca. Una sorta di porta, nera come la notte, si apre sul suo sorriso beffardo. Andrea. Lei porta una mano alla faccia, a ripulire il mascara colato. Lui l'afferra e con un guizzo rapido di muscoli la tira su. In un attimo Selvaggia è nel cuore dell'opera d'arte: marchingegni, ferro, ingranaggi, leve, mantelli e cappelli rigonfi, abiti preziosi appesi alle grucce, un divanetto consunto, una bicicletta, dei cuscini, bottiglie d'acqua sparse qua e là. Lo guarda, muta, cercando di esprimere con lo spandersi dell'azzurro dei suoi occhi tutto quello che vorrebbe dirgli. Passa le dita sul collo, sul seno posticcio, preme i palmi sul vestito frusciante, lungo i fianchi, infila le mani sotto, libera quel cazzo di marmo dalle mutande. Lui ha già una furibonda erezione. Ci sputa sopra e lo avvolge nella mano. Lui intanto le infila dentro un dito, due, tre. Poi la spinge contro una parete di legno grezzo, da cui pendono due ganci di ferro. Senza indugi la penetra. Scintille di dolore e piacere le esplodono in testa. Lei si volta e fa saettare la lingua, in cerca di quella di lui. Le mani a stringere il freddo metallo. I corpi puntellati contro la parete, incollati l'uno all'altro, le bocche bavosamente unite. Lei ha gli occhi rivolti in alto ora, verso le guglie dorate di quel carro barocco che svettano in cielo, tagliando le nubi. Sente l'odore pungente di lui. Amava leccarlo sotto le ascelle, aveva un sapore così vero. E l'olfatto è il senso che unisce in un attimo corpo, fica e cuore. Averlo dentro in questa oscena danza carnale le dà una sensazione di pienezza assoluta. Serra le palpebre e tiene gli occhi chiusi, frenando le lacrime. Lacrime di godimento. Selvaggia vorrebbe fermare questo momento. In alto un cielo senza stelle, intorno a loro un ambiente ridondante e imperfetto, velluti scarlatti e broccati consunti. La vera faccia del carnevale, stanca e sporca, indefinita. E la notte silente.
Il giovane dio pagano viene (è giovane), e il suo grido sembra venire dal mare, da lontano, e Selvaggia ride e ricorda le parole che aveva scritto per lui, un anno prima, durante quell'estate smemorata e sensuale:


Apro gli occhi e ti guardo, con insistenza,
a voler carpire ogni dettaglio di te
e trattenerlo per quando te ne sarai andato.
Il contorno delle labbra, i due nei un po' più in alto,
i capelli ribelli, le spalle nude e forti.

Cerco il colore dei tuoi occhi nel buio,
odoro il profumo della tua pelle,
indovino i tuoi respiri
che aprono a spazi smisurati.

Calpesto la sabbia a piedi nudi, entro nel mare
e ne inghiotto l'immensità con una voracità senza limiti.

Ti accarezzo la testa
e il fruscio dei tuoi capelli
mi assale, m'inonda, mi trasporta
dove le sensazioni sono più vive.

Ti prendo la mano e insieme seguiamo la scia luminosa
che conduce in luoghi indefiniti, dipinti senza regole.

Amelia

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