Ho aperto le finestre che volgono al mare, recluso dietro arroganti palazzi sorti senza chiedere permesso (da quel angolo le navi entravano in porto). E' freddo stamani. La mente si sgombra dalle ultime pene dell'alba. Il giorno dilaga e il sole si accende scendendo dall'alto sulle cimase di fronte. Ho appena il tempo di annotare queste poche parole sul mio taccuino luminoso. Mi appare snebbiato il passato, mentre non so quel che mi riserva l'oggi e il domani men che meno. Probabilmente nulla, se non il passare delle stupide ore. Devo creare l'emozioni che destano l'animo, fanno vibrare le membra e muovono il mondo. Mi guardo perplesso.
Tu dici - è poesia - , ma cos'è Poesia. Non conosco poesie: sono piccole, storte, contorte parole! Se le leggi non sanno di niente. Continuano, entrano a frotte e ti senti annegare. Tu vorresti cacciarle, dismettere quelle misere ideucole che non dicono niente. Pretestuose, s'ammantano di verità infinite. Invece, non sono altro che la chiave per farsi del male. La sega che ti trincia le dita, la spada che cruenta, infingarda ti spingi nel profondo, laddove si muove il pensiero che sanguina mesto e dilaga fino al cuore. Solite trite parole che vorresti smettere, eppure fanno un male tale che anche tu, che hai visto il dolore, che hai vissuto le normali tragedie dell'uomo, che hai difeso la pace familiare, in silenzio, appartato, tu sembri di sale. Lo so che tu piangi. Il perché non lo sai, ma io posso capire che il trattenuto sfogo sincero è dovuto al riflesso che vorrebbe tradurre in effetto il sogno perfetto che rincorre il tuo stato. Vuote parole di vertigine pregne, ricordare ti fanno che raggiungere non potrai mai la bella fanciulla, che dinanzi ti corre (guardare soltanto potrai da lontano, dimena le anche nell'alternante danza fatale).
Mia piccola Li...bel...lu...l...a, svanita sei, oramai.
Riflesso