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Racconto n° 4452
Autore: Eva Blu Altri racconti di Eva Blu
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Dove sono stata finora
Quant'era bello con quei suoi capelli rossicci, gli occhi verdi, le spalle larghe, il viso bianco, quasi diafano, con quegli occhiali che lo rendevano bruttino ma che a me lo facevano apparire più interessante. Quant'era bello, come lo vedevo io.
Quanto soffrivo, per il fatto di vederlo così bello.

* * *

- Ha ripassato bene?
Il lei marcava la distanza.
- Oggi devo interrogarla. Ritiene che la sua preparazione sia sufficiente?
Che noia.
- Sì, signor professore. Però se vuole darmi del tu, può farlo. Tutti i prof mi danno del tu.
- E io invece preferisco di no. Allora, parliamo dei numeri reali.
Proprio i numeri reali. Non so un tubo, dei numeri reali. Ma perché un prof che dà lezioni private ai rimandati e a quelli che, come me, preparano la maturità per l'ennesima volta, deve mettersi quest'aria così insopportabile? Finisce che, come sempre, parlerà lui e, dopo la meritatissima ramanzina, me li spiegherà di nuovo, per la millesima volta, e io mi perderò, per la millesima volta, nei miei pensieri.
Che in un modo o nell'altro portano sempre a lui.

* * *

La prima mi sembra strettina, ma lo specchio può ingannare. Allora mi provo la seconda misura. La porta della mia camera è chiusa ermeticamente a chiave, anche se non c'è nessuno in casa. Ma non si sa mai, qualche rientro imprevisto e inopportuno.
Come si allaccia dietro la schiena. . . niente da fare, devo ancora metterlo al contrario, affibbiare i gancetti di ferro sotto le costole e poi girarlo nel verso giusto, strofinandomelo sulla carne. Operazione fastidiosa, quasi dolorosa, che lascia il segno sulla pelle, ma che è necessaria. Infilo le bretelline, perfetto. Il bianco mi dona, non c'è che dire. Profilo destro, profilo sinistro, frontale, di spalle.
La seconda però continua ad essere esagerata. Ma forse un po' meno esagerata di una settimana fa. E sicuramente un mese fa era più piccolino. Sì, è sicuro: è cresciuto, cresciuto ancora. A poco a poco cresce.
E con lui cresco anch'io, cresce questa insopprimibile voglia di libertà, di liberazione, che sento dentro di me.

* * *

- Come va con quello squinternato di prof?
Mi sta ufficialmente antipatico, ma non sopporto che me lo tocchino.
- Benino.
- Presidente del circolo culturale dei diritti civili. In paese c'è qualche emarginato, maltrattato, stalkizzato? Ecco il temibile circolo, che interviene a salvare il mondo!
- Non è cattivo, in fondo. È solo un po' troppo formale, direi. Ma è bravo.
- Meno male. Fosse più sostanziale, si sarebbe accorto della... sostanza che ti porti addosso.
Il solito maialetto allusivo, Angelo. Ecco, ora allunga di nuovo le mani.
- Sta' fermo.
- Ma dai, che male c'è? Sono carine, gustose. Stimolano l'appetito.
- Sta' fermo con quelle manacce.
- Dai, te le palpo solo un po' e poi anche tu tocchi me. . . O preferisci che giochi un po' con le tue chiappe rotonde? Tanto non lo dico a nessuno. . . Come l'altra volta. . . L'altra volta l'ho mica detto a qualcuno?
La crisi. Di nuovo la crisi che ti assale. Resisti, per carità.
- Non è per questo. . .
- E allora per cosa è? Piace anche a te, dai. . . Sandro mi ha detto che te l'ha visto tirarsi su, dopo che te le ha massaggiate un po'. . .
- Sandro?
Maledetta lingua lunga.
- Sì, Sandro. Non so se dovevo dirtelo, però lui parla, parla. . . forse hai fatto male a fidarti e. . .
- Io faccio male a trattare gente come voi.
- Ma dai, che piace anche a te. . . sennò che ci staresti a fare qui con me in macchina, sulla collinetta dove si mettono tutti i pomicioni, all'imbrunire, l'ora della pomiciata?
In realtà vado con tutti i ragazzi carini del paese, su quella collinetta. A patto che nessuno lo dica a nessuno, e così è finito che lo sanno tutti, anche nei paesi vicini.
Però nessuno ammette di sapere per esperienza diretta. Tutti sanno dagli altri, per sentito dire: che non si dicesse mai e poi mai che qualcuno di loro è stato con me. È diventata quasi una storia comica, anche perché alla maggior parte dei miei improvvisati partner consento poco, pochissimo: e questo perché come amanti, al di là delle vanterie e delle chiacchiere da bar cui anch'io avevo partecipato, talvolta, lasciano molto, molto a desiderare.
Le loro tante confidenze sono perlopiù inventate: superata l'apparente, iniziale ritrosia e i mille imbarazzi che la situazione crea, non valgono nemmeno un millesimo di quel che raccontano. E ora capisco perché le ragazze del paese sono tutte annoiate e stanche e passano il tempo a dipingersi le unghia delle mani e dei piedi di mille colori diversi.
Io ho cominciato proprio così. Passandomi lo smalto sulle unghie.

* * *

- Oggi di cosa vogliamo parlare?
Ci penso su un attimo, poi decido e mi lancio.
- Di me, prof.
- O bella! E perché mai? Nel suo programma non c'è, come argomento.
- Vabbè, facciamo un'eccezione. Lei cosa pensa di me?
È in difficoltà. La domanda lo coglie impreparato, è fantastico vedere lui, e non me, in ambasce. Incalzo.
- Lasciamo perdere la matematica. Come persona, intendo.
Mi squadra dall'alto verso il basso, poi dal basso verso l'alto. Borbotta qualcosa, che non gli va e non vuole dir nulla perché non gli interessa.
- È sicuro che non le interessi? Andiamo, prof!
Ora protesta proprio, ma cosa hai in testa, guarda che ti pianto qua in asso e me ne vado su due piedi, ma roba da matti...
- Va bene, lasciamo stare.
Scena madre, mi raggomitolo ma la lacrimuccia che scende dall'occhio sprofondato verso il basso, verso la mia caviglia scoperta e il piedino che calza le infradito color pastello arancione, in fondo è sincera. Ora si è calmato, sento che il suo sguardo burbero si intenerisce, mi sta osservando, e non so se guarda il mio visetto dalla pelle liscia o il cerchietto che raccoglie i capelli all'indietro, la canotta rigorosamente bianca sotto cui si stagliano le mie piccole ma evidenti boccette, le braccia lisce e abbronzate, i pinocchietti blu a costine celesti che fanno tanto estate perduta tra i libri e i mille pensieri tristi che mi assalgono nella mia insolubile solitudine, che riempio vanamente di uomini e sesso.
- Lei non ce l'ha con me. Non più, vero?
Non risponde, dribbla la domanda che gli ho posto con voce impregnata di pianto.
- Perché ti conci così? Tutto il paese parla di te.
Accetto il fazzolettino che mi ha offerto, mi asciugo gli occhi e glieli sparo addosso, con la potenza del mio verde azzurro.
- A me non interessa del paese. Ma di uno, qui in paese, sì. E lei lo sa bene.

* * *

L'unico che ci sa fare è Beppe. Intanto perché non sceglie mai la collinetta e l'automobile. Prima mi porta a cena, mi corteggia, mi lusinga, mi fa pure ridere e mi compra la rosa offerta dall'immancabile indiano in trattoria. Poco importa se dobbiamo fare ogni volta da cento a duecento chilometri, cambiando regolarmente posto e motel. Con lui ne vale la pena.
Perché poi mi mette in un letto vero, mi bacia teneramente prima di cominciare, sa cosa sono i preliminari e non li teme, come gli altri, che vengono alla prima toccatina laggiù.
Fu lui, tanto tempo fa, a salvarmi dalle prime burle di paese, la volta che mi presero in quattro, in cinque, o forse addirittura in dieci e - dopo una lotta furibonda, in cui difendevo disperatamente la mia intimità, la mia identità - mi strapparono dai piedi le scarpe e i calzini e mi trovarono i collant e le unghia dei piedi con lo smalto nero.
Lui, Beppe, era già grande, io piccolo e innamorato dei bambolotti (maschi) di mia cugina. Mi portò via, letteralmente strappandomi a quella canea vociante che intonava un insostenibile coro di ricchione-ricchione!
- Mica hanno tutti i torti, però - mi disse quando fummo soli.
Io allora manco capivo cosa volesse dire ricchione, per me comportarmi in quel modo era cosa proprio naturale e non potevo farci nulla, io mi sentivo normale in quella maniera lì e non mi convinsero nemmeno i ceffoni e le sacrosante, dal suo punto di vista, cinghiate di mio padre.
Beppe di certo quei fatti oggi nemmeno se li ricorda, o fa finta di averli dimenticati. Credo che col tempo si sia un tantino innamorato di me, ed è per questo che quando esco con lui mi porta al motel prima perché io mi trucchi e mi vesta da strafiga, poi andiamo un po' in giro come una coppia vera e infine torniamo a fare l'amore.
Lui è fidanzato e io sono la sua seconda fidanzatina, mi spoglia piano e gli viene duro prima di avermi lasciata in mutandine e reggiseno, non è una gran bellezza e ha il vizio del bere, ma quando è con me non esagera, è tenero, sa come pizzicarmi i capezzoli facendomi letteralmente impazzire, perché me li titilla per minuti e minuti come piace a me, passando sopra le punte prima gli indici e imprimendo alla mia carne soda un movimento rotatorio che mi si trasmette subito alla testa e se non stessi seduta o distesa cadrei lunga lunga per terra; poi prosegue con pollici e indici e scava come un solco tra la punta del capezzolo e l'areola, tra la base e l'altezza, come se volesse svitarli e in realtà svita, allenta, azzera, annulla ogni mia capacità di resistenza (sì, non so resistere, mi piace troppo quando mi toccano lì, lo adoro e adoro chi sa farlo, lo amo proprio, anche se solo per quei pochi istanti in cui sa donarmi questo piacere immenso, favoloso, e amo, adoro, sono ancora persa per il primo che me lo fece, amore mio grande, cosa mi hai fatto, mi hai svitato l'anima e te la sei portata via), infine passa a leccarli e a mangiarli voracemente, come se volesse sbranarmi le tettine che gli ormoni mi fanno progressivamente gonfiare.
- Non ti fai scopare dal prof di mate, vero?
Me lo chiede mentre sono distesa perpendicolarmente rispetto a lui, spaparanzato a farsi succhiare l'uccello grosso e duro come il legno. E proprio il legno mi ricorda quella sua cappellona turgida e violacea, quell'asta grossa e nodosa che tengo dolcemente prigioniera nella mia mano morbida e curata, con le unghie smaltate di rosso fuoco, anche se domattina, tornando in paese, dovrò fare un'abbuffata di acetone per tirare via tutto quel colore.
- Sei matto? È il presidente del circolo per i diritti civili. . .
- E che vuol dire? Che quelli che sostengono i gay non se li possono fare, i gay?
Interrompo il mio lavoro di bocca e di mano. Il mio sguardo si fa severo.
- Io non sono gay, lo sai bene. Non ho niente contro di loro. Ma non lo sono. Io mi sento come mi vedi. Donna.
- Scusa, scusa. . . Pensavo ti tirasse l'uomo attempato. . .
- Ora mi metto pure con i vecchi. . .
- E io per te cosa sono? Non sono pure un vecchio?
Sollevo la testa, lo guardo un po' stupita. Non pensavo che mentre uno si fa fare un pompino potesse pensare di intavolare una discussione seria.
- Tu hai quindici anni più di me. Ma ne hai solo 36, quindi non posso dire che sei vecchio.
- Perché non scappi via? Perché non lasci il paese? I tuoi se ne sono dovuti andare, per la vergogna. Ma tu resisti.
- Perché me ne dovrei andare?
Non trova una buona ragione, vorrebbe che la trovassi io.
- Io sono così. Non faccio del male a nessuno. Non mi prostituisco. Non lo faccio per soldi, né per i regali con cui in molti pensano di comprare il mio silenzio.
- E se ti innamori?
Ecco, qui sono cazzi. Anzi, non sono più cazzi, perché mi tiro su e smetto di leccare il suo. Mi metto seduta. Mi guardo, nella grande specchiera che sta di fronte al letto di questo motel nemmeno tanto squallido. Indosso solo le autoreggenti - a Beppe piace, che le porti durante il sesso - e il mio uccellino ammosciato dalle cure ormonali si vede appena, incuneato com'è fra le mie cosce snelle. Sono paonazza, e non è solo il phard a colorirmi.
Beppe mi attira a sé, mi prende per un fianco, mi accarezza il seno. Piccolo, ma non rifatto. Mi piace quando fa così.
- Io potrei essermi innamorato di te - mi confida in un orecchio, e subito dopo si impegna nel leccarmelo. Sento l'umido della sua saliva e della sua lingua, come se mi entrassero dentro il cervello.
- Sei un tesoro.
Gli accarezzo il ventre duro, la palestra gli dona, la peluria folta che gli sale dall'inguine fino al petto lo rende arrapante. Ma la sua fidanzata - che stupida - non è gelosa di me, mi considera una non-donna, una puttanella di serie B. Sbaglia, perché Beppe si è veramente innamorato di me. Mi trova più donna di lei.
- So che mi vuoi bene, ma mi dispiace. Il mio cuore è di un altro. È per questo che non posso andarmene. Non ancora.

* * *

Il prof ha saltato una lezione, mai successo prima. Non mi ha nemmeno spiegato perché. Devo farla, però, gli esami sono tra una settimana e non so ancora niente. Vado io a casa sua. Busso e mi apre suo figlio.
Rimango senza parlare. Lui pure.
- Papà non c'è - si affretta a dire - è in città, torna domani.
- Non mi fai entrare?
- Neppure mamma c'è, è con papà.
- Mica ti mangio.
Mi fa entrare, ma non è vero: me lo mangerei, eccome. È uno stoccafisso, imbarazzato, imbranato, terrorizzato. Mi fa sedere nel salotto di casa, sul divano: lui si mette a un chilometro di distanza, su una poltrona che è all'angolo opposto della stanza.
- Non posso saltare la lezione di oggi. Ancora quei dannati numeri reali. Mica me la puoi fare tu?
- Non sono all'altezza. Non posso, non ci riesco.
- Studi già alla Normale, sei al terzo anno. Io ho perso due anni, per questa cazzo di matematica. . . Veramente non puoi aiutarmi?
Il santo non suda. Si guarda le punte dei piedi. Sento di detestarlo nel profondo. Voglio punirlo.
- La tua stanza? È sempre lì?
Vorrebbe fermarmi, ma in men che non si dica gli sfuggo, mi lancio per le scale e piombo nel suo piccolo regno. È ancora come allora.
- Ti ricordi? Studiavamo qui.
Gli indico il tavolo, sistemato sotto la finestra che guarda la campagna. Bella, bellissima, la nostra campagna. Bello, bellissimo ma doloroso, il ricordo che mi sta penetrando come ieri ha fatto Beppe, che mi chiede sempre (è l'unico che ha questa delicatezza) se mi faccia male.
Beppe mi ama e sa come farmi poco male, facendomi godere anche nel dolore. Ora a me fa male il ricordo di quella stanza.
- Sei stato il primo, lo sai?
Non risponde. È alle mie spalle, lo sento. Era alle mie spalle anche quel giorno in cui improvvisamente mi si avvicinò, accostandosi dolcemente a me, cingendomi senza malizia i fianchi e lasciandomi del tutto incapace di articolare un solo movimento. Vorrei che anche ora facesse quel che fece allora. Mi mise una mano all'altezza dell'ombelico, con l'altra mi carezzò una mano, poi dall'ombelico risalì piano, seguendo il percorso della magliettina sottile che indossavo quel giorno d'estate, superò il solco delle costole e poi trovò le mie microtette, sbocciate già allora, anche senza ormoni.
Lo stoccafisso allora ero io, io che non sapevo cosa fare, come cavarmela, ci volevamo un sacco di bene e già sentivo, sapevo di adorarlo, dentro di me, ma non pensavo che anche lui adorasse me, che mi volesse, che trovasse quel coraggio che io non avevo mai avuto, eppure quella era l'unica ragione per cui studiavo con lui, volevo stargli accanto, sentirlo respirare, guardarlo, vederlo sorridere, incavolarsi, parlare, volevo tutto questo e altro, e ora che quell'altro era arrivato ero una specie di manichino immobile.
Le mani che mi massaggiavano con dolcezza infinita le mammelle erano diventate due, la mia schiena ora era un tutt'uno con il suo torace e il suo ventre, il mio fondoschiena si stava incollando alle forme della sua virilità prorompente, tra i miei glutei appena protetti da pantaloni troppo leggeri si andava formando come un solco in cui sentivo crescere la sua carne, lo sentivo gemere piano, mugolare a un'inezia dal mio orecchio e poi avvertii il pizzico delle sue dita, mi fece male e dissi qualcosa, forse ahi, ah, ohi, non lo so, era lui che aveva trovato la combinazione della cassaforte, aveva sentito i capezzolini turgidi turgidi sotto la maglia fine e li aveva come strizzati, spremuti, e io mi ero sbloccata, avevo sentito sgorgare qualcosa da lì, forse il latte che mai avrei potuto dargli o dare a un bimbo mio, forse la mia femminilità fino a quel momento imprigionata, a parte l'allora già vecchio episodio dello smalto nelle unghie dei piedi.
Era stato come una liberazione, quel pizzico, e avevo cominciato a muovermi, roteando il bacino sul suo sesso di acciaio, mi sentivo femmina, ero sensuale e innamorata, dolce e mignotta, discreta e porca, avevo tirato su la t-shirt e gli avevo dato via libera sul mio pancino nudo, su quei piccoli seni arrapanti, senza più barriere, le sue mani sulla mia carne calda, ed era stato bravo, bravissimo, perché era stato tenero, gentile, soffice il suo tocco, mentre spietato e duro si era fatto il suo contatto in basso con il mio corpo, ora lo sentivo premere nel solco sempre più profondo, mentre una mano aveva ghermito il mio piccolo sesso. . .
Ansimando lo fermai, mi resi conto della situazione, sfuggii alla sua presa, mi staccai da lui, dissi qualcosa come basta, fermiamoci qui, è stato bello, ma bello era lui, e nel guardarlo accaldato, stranito e attonito per quella imprevedibile interruzione feci un passo all'indietro, inciampai e stramazzai sul divano, lo stesso divano che ora è ancora nella sua stanza. Me lo ritrovai addosso, no, no, dicevo, e tenevo incautamente la bocca aperta, mi baciò le labbra, poi sentii la sua lingua allacciata alla mia, e fu un bacio lungo, lunghissimo, appassionato, sfogo di un desiderio reciproco tenuto troppo tempo represso.
Alla fine gli avevo preso il viso con entrambe le mani. Era il primo bacio della mia vita, e avevo continuato a baciarlo, senza più freni, senza più inibizioni e baciavo così bene che lui disse di non credere di essere il primo e ci baciammo per un tempo che mi sembrò infinito e che mi pare stia durando ancora adesso.
Ora rivedo tutti i luoghi del nostro amore, li rivedo dopo tre anni, rivedo i nostri corpi nudi distesi sul letto, le mani intrecciate, il respiro pesante, il suo sesso dentro la mia bocca, la mia lingua sul suo glande scappucciato, nudo e caldo, la sua carne che riempiva la mia, il suo indugiare nell'inumidirmi e nel massaggiarmi per non farmi troppo male, la sua dolcezza pure nella apparente brutalità della sodomia, le poppe racchiuse nelle sue mani mentre mi penetrava nella posizione della pecorina, il suo urlo possente, il fiotto bollente che mi colpì sulla schiena, insozzandomi i capelli lunghi e poi il collo, le scapole, marcando il territorio del mio corpo, ormai divenuto di sua unica e sola proprietà.
- All'Università tutto bene?
- Sì, benissimo. Ma qualcuno ti ha vista entrare?
- Non lo so. Ti vergogni di me? Vado via, allora.
- Sì, forse è meglio.
- Tuo padre è veramente partito?
- No. Ha detto che usciva con mamma, perché noi due dovevamo chiarirci.
E bravo il presidente del circolo per i diritti civili. È stato coerente, in fondo. Rischia persino suo figlio, per i principi. Mentre sua madre! Fu lei a capire e lo costrinse a confessare e a pentirsi. Era l'estate della maturità, per lui. Lo mandò subito a studiare fuori, all'Università, gli vietò di vedermi e lo circondò di belle ragazze. Poi mise in giro la voce che davo volentieri il culetto e che facevo bene le pompe. E così diventai il femminiello, la puttana del paese.
- Hai detto qualcosa a mio padre?
- No. Secondo me già sapeva. Ma questo non conta. Io vado via. Lascio il paese. Non so se completerò mai questo cazzo di liceo, non me ne frega più di tanto.
- E dove andrai?
La domanda mi arriva mentre sono già ritornata al piano di sotto, sono quasi sulla soglia. Mi raggiunge, mi prende per un braccio.
- Aspetta. Ti aiuterò io, supererai gli esami, poi farai quel che vuoi.
Lo guardo. È ancora bellissimo, con i suoi capelli rossicci, gli occhi verdi, le spalle larghe, il viso bianco; non porta più gli occhiali, ma è sempre interessante. Lo vedo ancora bello, soffro tanto, maledettamente soffro.
Vado via lasciandolo sulla porta, mentre mormora ancora un inutile aspetta, dai, rimani. Vado via non so per dove, vado via perché non so dove sono stata finora, forse voglio scoprirlo, forse no, forse voglio continuare a girovagare da un uomo all'altro, da un sesso all'altro, da un paio d'occhi all'altro, nell'inutile, impossibile speranza di trovare un uomo che sia come lui, che sia lui, che mi ami come io amo ancora lui.



Eva Blu

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