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Racconto n° 4454
Autore: Morgause Altri racconti di Morgause
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La stanza dello scirocco
Caldo torrido, afoso, snervante, bagnato.
Caldo d'Africa, che sta di fronte alla mia isola, caldo di scirocco, vento misterioso, che porta con sé la sabbia rossa del deserto Libico.
Rumore di acqua che scorre nella grande vasca rivestita di ceramica azzurra sistemata sotto ad uno dei finestroni difesi da robuste sbarre di ferro seicentesche.
Guardo in alto: le antiche volti a botte costruite dagli architetti arabi tanti secoli prima esigono il silenzio; si dice che una tonalità di voce troppo alta potrebbe farle crollare.
Da quanto tempo sono chiusa in questa stanza, la più antica del nostro palazzo ormai in rovina?
Non lo so, nella mia mente c'è un buio ovattato, un muro di silenzio, raramente affiorano brandelli confusi di ricordi.

Allora rivedo la lama di un coltello e il rosso del sangue che mi ricopre, mentre urla spaventose che solo io riesco a udire percuotono i miei timpani; perdo conoscenza e quando ritorno in me mi ritrovo sdraiata sul pavimento di mattoni di questa stanza, la stanza dello scirocco.
I miei antenati, i principi di Falconara, la chiamavano così, perché qui si radunava tutta la famiglia nei giorni di caldo africano; si bagnavano nella grande vasca araba, poi sdraiati su divani e poltrone aspettavano, immobili, che dalle enormi tende di pizzo appese bagnate davanti ai finestroni arrivasse loro un soffio di vento fresco.
Ma lo scirocco non è mai fresco, anzi, con l'umidità delle tende, che non riuscivano ad asciugare, diventava ancor più caldo e insopportabile.

Così mi raccontava la Principessa mia madre, ma quando? Non lo so, non la vedo da molto tempo, dal giorno in cui mi hanno chiusa qui sotto.
Sepolta viva.
Per me non ci sono comodità, niente morbidi letti o graziosi arredi, solo qualche sedia di vimini a pezzi, un tavolo e un lettuccio: sono in prigione, ma non so il perché, non lo ricordo.
A volte sento attutiti i rumori del palazzo in rovina, la voce alterata della signora madre che rimprovera uno dei pochi servitori rimasti.
Il mio unico ricordo chiaro è una data: 4 agosto 1858; forse in quel giorno sono scesa qui, per non tornare mai più nel mondo dei vivi.

E' notte, dal giardino incolto che circonda questo lato della casa, isolato dal resto della proprietà da alti muri, mi arriva un odore greve, untuoso e carnale, le zagare sono in piena fioritura, mentre alcune piante di rose, abbandonate a se stesse, stordite dai nostri lugli apocalittici, emanano intensi profumi che sanno vagamente di morte.
Mi sono appena bagnata nella vasca, ora sono abbandonata su una grande sedia malconcia, il corpo nudo macerato dal caldo.
-I piemontesi forse sbarcheranno a Sciacca- di chi è questa voce di uomo, che mi fa balzare repentinamente verso la finestra?
Silenzio, le voci si sono spostate in un'altra stanza.
Mi avvicino a un vecchio specchio scrostato, che chiamo lo specchio magico, perché ha il potere di riportare alla mia mente sprazzi di ricordi.

Non riconosco mai la giovane donna riflessa.

I capelli lunghissimi e neri pesano sulle spalle, li sposto per rinfrescarmi il collo.
Brillano nella scarsa luce gli occhi neri, brillanti, arabi.
-Occhi del diavolo- urla una vecchia voce sgraziata nella mia mente.
Mi chiudo le orecchie con le mani per non sentire.

I seni sono grandi, pesanti, lucidi di sudore, i capezzoli scuri eretti; li accarezzo e una sensazione di piacere intenso mi assale, porto una mano in basso, nel cespuglio tra le cosce e sospiro.
-Peccato- urla la stessa voce -Peccato mortale- sussulto, togliendo la mano di scatto e vedo una suora, brutta e vecchia, la bocca aperta nel grido, il dito grinzoso volto al cielo in segno di minaccia. Poi odo il fruscio di ampie gonne di seta sul pavimento e sento mani, che non sono le mie, sul mio seno e tra le cosce, mentre qualche cosa di morbido e caldo percorre le labbra del mio cuore di femmina; chiudo gli occhi , come è bello questo sogno, pare vero...
All'improvviso una lama di pugnale mi acceca con il suo splendore: urlo e abbandono lo specchio, terrorizzata.
Torno sulla sedia e mi lascio andare al caldo e alla notte siciliana piena di odori e di profumi che mi fanno smaniare.
Ma stanotte una fame improvvisa mi assale, non di cibo, ma di un altro corpo che mi tocchi, che mi accarezzi, che mi faccia cose che neppure so, i muri della mia mente si chiudono.

Torno di fronte allo specchio, questa volta non scapperò, urlate quanto volete,voci di fantasmi.
Ma non sono io l'immagine sorridente riflessa , è quella di un giovane uomo nudo, alto, biondo, di quel biondo normanno che risplende come oro antico, il sesso eretto: lo conosco, ne sono sicura; qualcosa mi spinge ad inginocchiarmi per prenderlo in bocca, sentire la sua carne calda, stringere a me i suoi fianchi ma bacio le mie stesse labbra, perché l'uomo è scomparso.
Sono sconvolta, il caldo opprime il respiro, guardo oltre le fitte sbarre della finestra: la luna è piena, ma sembra galleggiare in un mare di latte.

Sui monti lontani, oltre il muro, brillano fuochi sparsi: ma chi sono questi piemontesi?
I pensieri si affollano nella mia mente, il sangue scorre bollente sotto la pelle.
Sdraiata sulla sedia, mi asciugo il sudore tra i seni e poi lo sento: uno sguardo alle mie spalle che mi penetra come una spada.
Ma chi può essere, solo la signora madre ha la chiave di questa stanza.
Volto all'indietro il capo sopra la spalliera, lasciando i capelli liberi, nel vuoto.
Appoggiato al muro, dietro di me c'è Giovanni, il marito di Isabella, mio cognato: lo riconosco, ma perché è qui? Se ne era andato, dove e per quale motivo? Non lo so, ma ora ricordo una fuga notturna e di nuovo tutto quel rosso sparso intorno a un corpo di donna scomposto come un fantoccio sul selciato.
Isabella che gridando vola dalla grande finestra come un angelo...
poi la Signora Madre che urla:
-Sgualdina, tu hai assassinato tuo marito e tua sorella, tu, morirai sepolta viva-

- Giovanni amore mio sei tornato- mormoro, ma ora non è più Giovanni, scuro come me, è quell'altro, mio marito, biondo e ricciuto:
-Vieni- e gli apro le braccia.
L'uomo si avvicina, mi prende i capelli, avvolgendoli in una massa pesante e vi immerge il viso, mentre mormora- Consuela, sono tornato per l'odore dei tuoi capelli, non posso vivere senza di te-
Gli afferro le braccia e costringo le sue mani a scendere sui miei seni.
Li afferra con forza, gemendo
Ora so che cosa devo fare, la mia fame si placherà, finalmente.

Ecco, ora è di fronte alle mie gambe aperte, lo scirocco sconvolge i sensi.
L'uomo percorre il mio corpo con sguardo avido, riconosco nei suoi occhi quella luce opaca eppure intensa.
Balzo in piedi e mi stringo a lui, la mia lingua nella sua bocca, la mano sul sesso rigido, i seni costretti contro il suo petto.
Me lo trascino addosso sul lettuccio e allora ricordo tutto, ricordo Ranieri, il mio giovane sposo, così biondo e luminoso, tanto quanto io e mio cognato siamo scuri, anime di tenebra.
E quando tentai di scacciarti dal mio letto per sempre, Giovanni, perché volevo essere solo sua, allora...
Il mio orgasmo è improvviso, lacerante, un'ultima spinta e scivoliamo nel vuoto del piacere, con un grido soffocato.

Ora devo pensare in fretta, ora ho Ranieri addosso, è il 4 agosto 1858, Ranieri che grida perché un pugnale gli ha perforato un polmone, grida perché non vuole morire, bagnandomi con il suo sangue.
Io sono pietrificata, mentre guardo Giovanni infierire su di lui e chiudo gli occhi , pregando:
-No, no, no-
L'ultimo ricordo che ho è il suo volto deformato dall'odio insieme alla certezza di volere morire anch' io.
Ecco perché tiro fuori da sotto il cuscino il coltello da cucina che ho nascosto lì, non so più quando, e con forza lo pianto nel torace del mio primo e unico amore, se ho fortuna gli spacco il cuore.
Ho fortuna: trafiggo cuore e polmone insieme, lo capisco dal gorgoglio del sangue che mi inonda il collo e parte del viso.

Ma questa volta i miei occhi sono aperti, così posso vedere il suo sguardo di sorpresa e di dolore.
Mormora qualche cosa come -Ti amo- e mi ricade addosso.
Lo scosto, mi alzo e vado all'antica vasca per ripulirmi di tutto quel liquido vischioso: l'acqua diventa color porpora.
Guardo verso il lettino: chi è quell'uomo nudo sdraiato sul mio materasso che si sta rapidamente tingendo di rosso?
Devo chiamare , dovrò gridare e se cadono i soffitti?
Ci penserò, mi risiedo sulla vecchia sedia, davanti alla tenda che lo scirocco gonfia, e ricomincio ad asciugarmi il sudore.



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