L'uomo le arriva accanto silenzioso. Avvicina un cucchiaio alle sue labbra e lei ne beve il contenuto. Beve, con naturalezza, come se stesse assaggiando una pietanza. Beve il suo sperma dal cucchiaio. L'uomo posa il cucchiaio, si volta lentamente ed esce dalla stanza.
La donna riprende a scrivere, con l'intermittenza di chi pensa, prima di scrivere. L'uomo spegne tutte le luci, fino a lasciare accesa solo la lampada sulla scrivania: a illuminare la tastiera e solo le sue mani, il suo busto e la sua bocca. Una bocca carnosa e tenera, di bambina. La donna non distoglie l'attenzione dal suo lavoro nemmeno per un attimo.
E' l'ora ibrida, quel lungo momento in cui la terra è meno luminosa del cielo e per un lungo momento la bellezza del mondo è toccante.
L'uomo si avvicina di nuovo. Senza parlare la spinge ad alzarsi: le solleva la gonna, da dietro, le abbassa le mutande, bianche, la invita a inclinarsi e si abbassa a guardare. La tocca, là sotto, solo un veloce sfiorar di polpastrelli che basta all'uomo per sentire le tracce umide della sua eccitazione che in qualche modo lo placa, lo rassicura e nello stesso tempo incrementa il suo subbuglio.
E' ben lubrificato ed entra facilmente il plug nero che lui le fa scivolare nel culo. E ciò che lui ha nei pantaloni pulsa, mentre guarda l'anello di velluto dilatarsi e poi contrarsi intorno al plug.
La donna si raddrizza, lui le tira su le mutande, le abbassa la gonna e la fa sedere di nuovo. Lei riprende a scrivere. Lui si siede sul divano a leggere. Adesso sono due le lampade accese nella stanza.
Dopo due ore la donna è in cucina. E' dritta davanti ai fornelli, intenta a preparare la cena. L'uomo si ferma sotto l'arco della porta a guardarla: le spalle morbide, la schiena rettilinea che finisce nella curva di quel culo tondo che custodisce gelosamente il loro gioco, i piedi nudi. Le si accosta, solleva la gonna, abbassa le mutande e controlla se il plug è al suo posto. Lei non fa una piega. Lui spinge le dita più sotto, a verificare il suo stato, a provocare una reazione in quella statua di sale che si offre impassibile ai suoi capricci, a cercare ciò che sa ribollirle dentro. Le porta le dita davanti al viso: sono bagnate e brillano sotto la luce. Lei le lecca, le ripulisce per bene e poi si porta il mestolo alla bocca per controllare la sapidità del cibo.
Cenano, quasi in silenzio, seduti ai capi opposti del tavolo della cucina. Lui spezza il pane con le mani, versa il vino, prima nel bicchiere di lei. Lei non lo guarda mai. Lui sì, la guarda cercare una posizione sulla sedia che le consenta di compensare l'ingombrante presenza che le invade l'intestino, spostare il peso ora su una natica ora sull'altra, mentre la luce che ha negli occhi vira continuamente dalla ribellione alla cessione di ogni volontà.
Adesso Lea - questo è il suo nome - è stesa sul tavolo, supina. L'uomo ha sparecchiato, ha raccolto le briciole, ha ripiegato la tovaglia con cura, ha lasciato le stoviglie nell'acquaio, si è asciugato le mani ed è tornato da lei.
Le cosce appena aperte, le gambe che ciondolano nel vuoto. La collina del pube gonfio, le labbra nude, il ciuffo di peli serici e bruni che imprigionano tracce dei suoi umori. Le braccia alte sopra la testa, i polsi incrociati a simulare corde inesistenti. Lui non ha bisogno di legarla, il legame che la tiene ferma sul quel tavolo lei lo annoda da sé, volontariamente ogni volta. Non chiude gli occhi, non si isola, non lo esclude.
L'uomo si appoggia al bordo del tavolo mettendosi tra le sue gambe e la sfiora per incresparle la pelle. La marchia di polpastrelli. E' un contatto elettrico che genera energia in entrambi, li accende. Arriva fino alle ginocchia, risale, si sofferma sui seni. Fa scorrere il palmo aperto delle mani contro i capezzoli che sono già puntati contro il soffitto, poi li tortura meticolosamente, strizzandoli e torcendoli, strappandole mormorii e gemiti di dolce sofferenza. Vorrebbe leccarla, imprimersi nelle papille il sapore della sua pelle, ma aspetta. Quando le spalanca le gambe, piegandole le ginocchia, quando la vulva rossa gli ferisce lo sguardo, un ricordo nitido gli annebbia le idee. Il ricordo della prima volta che ha compiuto l'identico gesto. Non può dimenticare perché la scoperta di quel mollusco umido, brillante che palpitava di desiderio, che si offriva inerme alla sua voglia, è indissolubile dalle parole di lei: - Non potrei tenere in considerazione un uomo che quando mi apre le cosce non mi guarda, non si stampa nelle iridi questa immagine e non resiste alla tentazione di impregnarsi tutti i sensi. - E lui lo fa, ogni volta. La guarda a lungo e la vista gli si annebbia. Si abbassa ad aspirarne il profumo, ruvido e delicato, di prugna e di alghe e le narici si dilatano all'olfatto. Passa leggere due nocche su tutta la parete gonfia e umida e al tatto le dita gli si impastano di desiderio. Poi s'inclina e appoggia l'orecchio sul pube: può sentire il mare che muove i fianchi là dentro; la sua fica è una conchiglia.
Lea sobbalza quando lui le dice:
- Non ti muoverai, vero?
Nemmeno aspetta una risposta, mentre lei si limita a deglutire, e torna in cucina. Quando le è di nuovo vicino appoggia sul tavolo la metà di un limone.
-Apri, di più.
Appena strofina il taglio dell'agrume sul suo sesso spalancato, un gemito convulso le esce dalle labbra. Un rantolo rauco che diventa grido quando lui ne spreme il succo nella sua mucosa gonfia. Come un frutto di mare vivo, la vulva si contrae sotto l'effetto dell'acido citrico e lei si contorce come cellophane gettato nel fuoco. E solo a questo punto lui si abbassa a leccarla.
Jihan