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Racconto n° 4738
Autore: Divinecomedy Altri racconti di Divinecomedy
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Il tempo non passa, arriva
C'è uno strano silenzio in sala stampa oggi pomeriggio. Dopo il solito trambusto delle presentazioni e delle strette di mano, delle risate di circostanza al cospetto di quella o quell'altra eminenza, delle sedie trascinate in completa disarmonia, del fischio di un microfono imbizzarrito, tutto è improvvisamente calato nel silenzio allo scoccare della mezz'ora canonica di ritardo rispetto alla locandina. Proprio mentre sta per prendere la parola il moderatore, un paio di tacchi ha superato la rampa di moquette all'inizio del corridoio e ne sta percorrendo il pavimento in marmo. Mi convinco di come il passo destro e il sinistro possano avere un suono uguale, ma l'illusione più forte restituisce una cadenza sì regolare, ma bitonale. La suola produce un piccolo scivolamento allorquando la giovane entra in sala. I grossi e scuri occhiali da sole che porta misurano l'intera platea, alla ricerca di un posto libero e a favore di camminata. Sembra cercare qualche volto conosciuto, o forse no, e mi sembra un volto conosciuto, o forse no. I tacchi che l'hanno annunciata sono alti, sottili, neri, lucidi, delle decolleté nere di vernice, basamento di un bel paio di caviglie e di un paio di gambe slanciate e tornite, non sono sicuro che porti calze sotto la gonna nera al ginocchio. Il trench classico e sbottonato è stretto da un'insolita cinturina in pelle nera, allacciata di modo da aprire il bavero su un lembo della camicia bianca. Qualche ciocca rossiccia si alterna al castano chiaro dei lunghi capelli. Su una spalla porta una grande borsa in pelle rosa chiaro, sull'altra un'anonima borsa da pc . Il posto sul camminamento centrale, in una delle ultime file, sembra piacerle, si siede lasciando scivolare con grazia ambo le borse sul pavimento, e leva gli occhiali.
Mi prende un colpo. E' Dora, la figlia dei signori del palazzo di fronte quello dove abitavo fino ad otto anni fa. Loro erano andati via dieci anni fa, non appena Dora aveva finito il Liceo. L'ho riconosciuta per via di una forte somiglianza con sua madre, all'epoca bellissima donna. E' incredibile osservare che gli anni che sono passati per Dora sembrano invece arrivati. Camminavano spesso affiancate madre e figlia, la madre splendida, sempre vestita di nero; la figlia inquieta e dimessa, spesso in preda ad una qualche trovata da adolescente. Non era infrequente vederla con un colore di capelli bizzarro, come quella volta che spuntò sul viale tornando da scuola, con i capelli così rossi che sembravano prendere fuoco. Oppure quella volta che ci eravamo incrociati per strada - Buonasera Ingegnere! - , quei modi gentili così ossimorici rispetto al violetto veemente delle ciocche e delle unghie. Era anche ossimorica nel portare quella ridicola e futuribile sciarpa di ciniglia gialla al collo, stringendo gelosa al petto il vecchio Castiglioni Mariotti tutto sfogliato. Goffa e grassoccia, di lei sapevo fosse una bravissima studentessa.
Dora deve aver percepito di essere osservata, la vedo rivolgere uno sguardo obliquo e distratto verso di me, durato troppo poco perché possa essersi accorta che sono io a guardarla. Accavalla annoiata una gamba, noto che ha le calze da un triangolino della balza di pizzo color pelle che sbuca sotto la gonna.
Qualcosa era cambiato durante gli ultimi due anni in cui quella famiglia abitava lì. Una grossa Audi veniva spesso a prenderla e riaccompagnarla sempre più tardi; i jeans pieni di perline e di graffiti a pennarello si erano trasformati in eleganti pantaloni grigi, il giubbotto rosso era diventato un cappottino nero, le felpe si assottigliavano in maglioncini scollati. Lo zaino strappato dei primi anni di liceo era stato soppiantato da uno smorto tascapane a tracolla, i libri più grossi e i dizionari erano però sempre stretti al petto. Con la famiglia aveva lasciato la casa di fronte alla mia per il lavoro del padre, non ricordo chi mi aveva detto che aveva deciso di studiare Economia.
Non ho seguito la conferenza neanche per un attimo, non mi riesce di quantificare quanto è durata, dall'orologio realizzo che è passata un'ora. Applaudo per una specie di consumato automatismo, che Dora, pur sembrando interessata almeno in parte alla relazione, non ha attivato.
E' tra le prime a rialzarsi, dirigendosi verso lo stesso relatore che ha invitato me riesco a notare che ha perso almeno dieci chili, da grassoccia è diventata formosa, da goffa imponente. Salutandolo, attacca bottone con lui. Per avvicinarmi ad entrambi, mi faccio sotto la raffica di parole. Allargando il giro per far spazio anche a me mi guarda, riprende a parlare, si interrompe all'improvviso aguzzando lo sguardo, trasale: - Ingegnere, oh mio Dio, da quanto tempo! Come sta? - mi tende la mano e mi bacia le guance. Profuma di rosa e di spezie. Fa per dire all'amico comune che abitavamo nella stessa strada, tessendo le lodi alla mia gentilezza. In quel mentre le squilla il telefonino. Congeda l'amico e prima di rispondere alla chiamata dice a me - Vado un attimo fuori, lei non sparisca, voglio sapere che fa lei e come stanno sua moglie e i bambini. La aspetto nell'atrio - .
Dopo cinque minuti la raggiungo. Riprende il discorso - Ingegnere, abita ancora lì? - . Le chiedo di chiamarmi Maurizio e di darmi del tu, le spiego che mi sono trasferito nei paraggi dello studio, non lontano da dove siamo adesso, e che i bambini sono ormai cresciuti, nel bene e nel male. Da lei apprendo che ha appena passato l'esame di abilitazione alla professione di Dottoressa Commercialista, che si è ritrasferita dopo che il padre è andato in pensione, che ha lasciato il fidanzato poco prima del matrimonio dopo anni di buio sentimentale, che per i suoi studi ha girato l'Europa in questi anni e che sua madre sta poco bene. Mi invita a prendere un caffè, rilancio invitandola a vedere il mio studio. Mi segue muovendosi leggiadra nei pochi isolati successivi e fino all'appartamento. Entra in punta di piedi, salutando le pareti con un Buonasera. Le faccio cenno di posare le borse su una poltrona dell'ingresso e di appendere il trench. Ammira i grandi stampati dei progetti sul tavolo da disegno e i libri affastellati sui grossi scaffali, sporgendosi non riesco a fare a meno di guardare ora i grossi seni che si intravedono dietro la camicia bianca sbottonata con noncuranza, ora il fondoschiena che si protende dalla gonna che lo fascia quando si alza ancora di più in punta di piedi per leggere i titoli di qualche volume in alto. La vista dal mio ufficio personale sulle campagne fino al mare è bellissima, e mi segue fin lì. Ancora quel profumo di rosa e spezie, percettibile solo ora che le sono vicino. Il suono dei suoi passi mi fa girare la testa mentre, dopo aver guardato il panorama, rivolge la sua attenzione al planisfero sotto vetro sul piano della scrivania. Si piega per leggere da vicino delle scritte nei pressi di Hong Kong allungandosi. Non resisto, l'eccitazione, rapida come una molla, mi esplode nei pantaloni. Le afferro dolcemente i fianchi con una paura incredibile di prendere un tacco nel piede. Invece la sento rabbrividire appena, avvicinandosi ancora di più si abbassa impercettibilmente, planando bocconi sulla scrivania. Tirando su la gonna noto che non porta mutandine.
Di colpo mi ricordo di quell'ultima notte prima che traslocassero. Erano le tre, non riuscivo a dormire e guardavo fuori dalla finestra. L'Audi era parcheggiata sotto casa di Dora, e lei aveva i seni e le cosce nudi, la carne incastrata tra il volante e il torso del fidanzato, quel fidanzato di cui conoscevo solo il rumore e il colore blu scuro della macchina. Era così goffa e fanciulla, ma deliziosa e sprezzante in quella situazione così rischiosa. Nella foga di cavalcare il fidanzato, uno sguardo è volato verso la mia finestra, non so perché, ma credo che abbia iniziato a scopare per la gioia dei miei occhi, oltreché del corpo del suo uomo.
Mentre Dora aspetta che faccia qualcosa con quelle sue terga di fronte a me mi fermo ancora un attimo. Non provo pudore, ma cerco di riavermi da quei fiotti di ormoni sotto il ventre. Lei, compresa l'impasse, si gira, scivola un po in giù, i tacchi riprendono il pavimento, gli occhioni le spuntano interrogativi, il mento rotondo sorregge il broncio leggero. I seni, più audaci un po' fuori dalla camicia bianca, le danno manforte nella silenziosa protesta. Può bastare a vincere qualsiasi resistenza. Le afferro la nuca, la bacio, la stendo sulla scrivania e la sormonto sbottonandole la camicia. Per mettermela a favore di uccello le tiro giù i fianchi e le incastro il fondoschiena sullo spigolo della scrivania, mi slaccio rapidamente i pantaloni e la penetro di urgenza. Finalmente la sento gemere. Non ci vuole poi molto per farla venire, mi bastano pochi colpi assestati con le mani ben salde sui seni. Ma voglio di più. Salgo sulla scrivania dal lato più corto opposto a Dora, me la stendo di fianco, ma rivolgo la sua testa verso il mio ombelico, facendo lo stesso con la mia. Mentre lei lecca l'uccello fradicio, io le bevo l'orgasmo dalle cosce, lo pesco a ditate sempre più avide dalla fica non troppo pelosa. La morsa del suo inguine mi blocca la lingua alla sua fica, e lei nel frattempo succhia il mio uccello con vigore sempre crescente. Sento ancora una volta l'orgasmo in arrivo che le deforma i muscoli tra le cosce, la sento mugolare, acuta e disperata, col mio uccello spinto in gola, la vibrazione della voce mi avvolge la cappella. Così decido di annegare quel suo dolcissimo mugolio nel mio sperma, riempiendoci le bocche di succhi ci saziamo. Nel suo, di succo, di nuovo un profumo speziato.
Come quella mattina in cui andava via con la sua famiglia, Dora si ricompone, si rimette il trench,carica le borse sulle spalle e richiude la porta dietro di sé senza dire una parola. Come in quella mattina di luglio, neanche in questo pomeriggio di maggio ho il coraggio di chiederle un numero di telefono dove poterla cercare.
Non voglio che Dora passi, voglio che Dora arrivi.

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