La stanza in cui l'avevano rinchiusa era buia, fredda, umida e puzzava di muffa.
Agata mosse le spalle e le braccia legate, cercando di assestare meglio i lembi della sua tunica mezzo strappata. Quegli...animali! No, non animali, le bestie sono meno grette, meno cattive...meno perverse!
Rabbrividì per il disgusto al pensiero delle loro mani. Le erano piombati addosso in tre, all'improvviso, con un quarto di scorta nel caso gli altri non fossero riusciti a sopraffare una donna sola. L'avevano spintonata, picchiata, schiacciata a terra e legata, il tutto cercando di brancicare quanto più di lei potessero. Il seno destro le doleva ancora dalla forza con cui il più grosso dei tre l'aveva afferrato.
Lei era una strega, dicevano, un essere immondo. Peccato però che i loro cazzi si erano erti al toccarla...oh, li aveva sentiti eccome premere contro il suo corpo mentre la riducevano ad uno stato di impotenza. Razza di porci schifosi!
E il quarto, lì impalato a guardare con gli occhi spalancati, che erano parsi schizzare fuori dalle orbite quando un seno era stato scoperto dalla violenza degli strattoni. Agata aveva letto il disgusto sul suo volto, ma l'uomo era stato incapace di distogliere lo sguardo dalla sua mammella, esattamente come gli altri non avevano resistito al desiderio di metterci le mani. Il dolore, la paura e il disgusto la attraversarono da capo a piedi mentre riviveva con la mente quanto accaduto poche ore prima.
Poi quegli esseri disgustosi e puzzolenti l'avevano portata alla canonica, e l'avevano rinchiusa in uno dei magazzini vuoti.
Dicevano di agire in nome di Dio, ma Dio avrebbe dovuto fulminarli per i loro pensieri lascivi, per le loro azioni perverse. Erano monaci, in nome del cielo! Eppure si comportavano come maiali grufolanti.
Dov'era Dio, se i Suoi servi potevano fare quello che volevano, tronfi di un potere che garantiva loro l'intoccabilità?
Ma Dio non amava le donne, altrimenti nessuna si sarebbe trovata nella situazione in cui si trovava lei ora, con due sole alternative: una morte rapida per annegamento, o una più lenta e dolorosa sul rogo, dopo ore, forse giorni, di tortura.
Perché i - processi - per stregoneria funzionavano così. Non ce n'erano mai stati nel loro villaggio o in quelli vicini, ma le voci correvano e arrivavano anche da lontano, e la gente sapeva.
La presunta strega veniva legata per i polsi e calata più volte in acqua, finché non smetteva di respirare. Poi veniva posata a terra e si attendeva. Se non si riprendeva, se restava morta, voleva dire che era innocente, perché il diavolo non era intervenuto a resuscitarla.
Se tossiva e sputava acqua per poi riprendere a respirare, voleva dire che Satana aveva agito per salvarla, e quindi era una strega. Quindi veniva torturata per farle confessare i propri peccati, per farle dire i nomi dei suoi complici. E infine le autorità ecclesiastiche la passavano a quelle terrene, che si occupavano del rogo.
Ecco cosa le sarebbe successo.
Agata si inginocchiò a fatica e cominciò a pregare. Pregava per supplicare Dio di farla affogare, domani. Per implorare che le fosse risparmiata la tortura.
Sapeva benissimo di non essere una strega. E sapeva benissimo anche perché era stata catturata. Da quando erano morti i suoi genitori per una polmonite che per poco non si era portata via anche lei, viveva sola nella loro capanna sulla collina. Allevava le pecore e le galline, coltivava a fatica un pezzo di terra e quello che non poteva fare da sola lo acquistava in cambio di latte e uova. Ma aveva imparato da sua madre ad usare le erbe, e molte delle donne del villaggio venivano da lei di nascosto per farsi curare.
Questo le era valso occhiate velenose tutte le domeniche quando si presentava in chiesa per la messa, e una serie infinita di rimproveri da parte del parroco durante la confessione. Ed innumerevoli visite da parte delle pie donne che cercavano di convincerla di volta in volta ad andare in convento o a sposare uno dei giovani del villaggio, perché non stava bene che lei vivesse da sola. Ma nessuno le aveva mai dato della strega. Finora.
Era stato il mastro tintore a denunciarla. Quel lurido schifoso. La spogliava sempre con lo sguardo ogni volta che la vedeva, e ad Agata veniva la pelle d'oca dal disgusto. Più volte aveva cercato di stringerla in un angolo quando lei scendeva al villaggio, alitandole il suo fiato fetido in faccia, cercando di baciarla con una bocca unticcia e piena – si faceva per dire – di denti marci, palpeggiandola in ogni dove.
Si era presentato da lei una settimana prima, dapprima esigendo che lei gli desse un filtro contro l'impotenza e andasse a letto con lui. Poi dato il suo netto rifiuto, aveva cercato di aggredirla. Ma lui era vecchio e grasso, e lei giovane e svelta. Gli aveva rotto il manico della zappa sulla schiena, e l'aveva scacciato gridandogli dietro di non farsi più vedere. E lui per ripicca aveva detto a tutti che lei era la causa della sua impotenza. La gente, invece che credere a lei, giovane donna che viveva da sola, ovviamente aveva creduto a lui, affermato artigiano. Ma la cosa non era finita lì, perché il bastardo era andato dai monaci a denunciarla per stregoneria. Due piccioni con una fava: si vendicava di lei e aveva un'arma per intimorite eventuali altre vittime recalcitanti.
Agata quindi era consapevole di cosa la aspettasse, e sapeva anche benissimo che quello non era un modo per combattere una fantomatica stregoneria ma il modo migliore di liberarsi di una donna indesiderata. Perché non c'era via d'uscita, sarebbe morta comunque. Quindi in ginocchio in quella cella buia e fredda non pregava per una salvezza che non poteva esserci, pregava perché la propria morte fosse il più rapida ed indolore possibile.
Fuori dalla sua cella, qualcuno stava di guardia. Era il quarto monaco, quello che non aveva toccato la prigioniera. Seduto a terra, appoggiato alla porta, pregava a sua volta. Pregava perché ciò che aveva visto oggi l'aveva sconvolto. I suoi confratelli comportarsi come bestie, una donna che non faceva male a nessuno, che veniva in chiesa tutte le domeniche e a tutte le feste comandate, e che anche in quel momento sentiva pregare di là della porta, accusata di stregoneria da un maiale che palpeggiava tutte le donne che gli capitassero a tiro. La consapevolezza che il - processo - era una farsa...Fratello Emanuele era uno studioso, un copista, da pochi mesi uscito dalla clausura. Aveva studiato, conosceva i filosofi greci e la logica aristotelica, e sapeva che quando una donna veniva accusata di stregoneria, il risultato era uno e uno solo: ella moriva. Cambiava solo il modo.
La cosa l'aveva sempre sconvolto: a differenza di molti suoi confratelli, non condivideva le parole di Sant'Odone, abate di Cluny: "Se gli uomini potessero vedere quel che si nasconde sotto la pelle, la vista delle donne causerebbe solo il vomito. Se rifiutiamo di toccare lo sterco anche con la punta delle dita, come possiamo desiderare di abbracciare una donna, creatura di sterco?". Certo, come affermavano sia San Paolo sia Sant'Agostino, le donne erano inferiori agli uomini e dovevano obbedire loro, ma ucciderle per un mero sospetto? Non era logico, era uno spreco. Come uccidere un buon cane da caccia perché qualcuno aveva ammazzato le galline nel pollaio.
E poi...e poi non riusciva a togliersi dalla mente le immagini del corpo di quella donna. I capelli che erano sfuggiti al fazzoletto, chiari, folti. Gli occhi verdi scintillanti di rabbia e paura. La pelle del volto e del collo chiazzata di rosso. Le sue forme evidenziate dalla tunica schiacciata dalle mani degli altri. Quelle mani che l'avevano toccata in posti innominabili e che gli avevano fatto ribollire il sangue e non solo di giusta ira: si era dovuto imporre di rimanere immobile, di non raggiungere i compagni, di non protendere le mani a toccarla...
E poi il seno, candido, mai toccato dal sole, emerso improvvisamente dalle pieghe dei vestiti. L'erezione improvvisa, tesa, quasi dolorosa l'aveva colto alla sprovvista. Non pensava che il suo corpo, abituato da tanti anni all'immobilità della castità monastica, potesse prendere vita così repentinamente. Così violentemente.
Si inginocchiò sul pavimento freddo e pregò Dio che lo aiutasse a cancellare quell'immagine dalla sua mente. O sarebbe impazzito.
La svegliarono con una secchiata d'acqua. Due dei monaci che l'avevano aggredita il giorno prima la sollevarono in malo modo strattonandole le braccia doloranti per la lunga immobilità e trascinandola fuori dalla cella.
Un po' la spinsero e un po' la trasportarono, senza perdere occasione per palpeggiarla, su per le scale e lungo infiniti corridoi fino a una stanza rivolta ad est, perfettamente illuminata dal sole del mattino. Dopo il buio del buco dove l'avevano sbattuta il pomeriggio precedente, tutta quella luce le ferì gli occhi.
Con un ultimo spintone, i due buzzurri la scagliarono nella stanza e si chiusero la porta alle spalle. Mentre Agata lottava per non perdere del tutto l'equilibrio e rovinare per terra, sentì il rumore della chiave che girava nella toppa.
Due mani molto meno brusche di quelle che l'avevano maltrattata fino a quel momento si chiusero sulle sue spalle e la stabilizzarono. Era il quarto monaco, quello che era rimasto a guardare con aria disgustata mentre i suoi colleghi la riducevano all'impotenza.
Ora sembrava teso, e stanco.
Un rumore in un angolo le fece voltare la testa. L'ultimo monaco sedeva ad uno scrittoio, e la guardava con aria lasciva.
Il suo sguardo saettò per tutta la stanza, ma a parte la postazione del frate, non c'era altro che un tavolo. Niente strumenti di tortura o simili. Agata si rilassò impercettibilmente.
La donna sembrava malconcia ma non distrutta. I suoi confratelli l'avevano praticamente sbattuta nella stanza preparata per l'esame e lei era riuscita a non schiantarsi al suolo, nonostante il digiuno e le mani legate dietro la schiena. Fratello Emanuele si ritrovò ad ammirarne la forza.
Di certo Fratello Domenico e Fratello Ireneo erano ancora arrabbiati con lui. Quella mattina, quando si era trattato di stabilire chi avrebbe dovuto effettuare l'esame per cercare il Segno del Diavolo sulla prigioniera, Emanuele si era imposto sugli altri, minacciando di scrivere all'Abate del loro comportamento lascivo nei confronti della donna. Il novizio, Benedetto, gli aveva riferito che quella notte i due confratelli, e anche Fratello Pietro che ora sedeva allo scrittoio con penna e calamaio pronti, si erano dedicati con particolarmente ardore ad attività masturbatorie rigorosamente vietate. Anche questa era stata usata da Emanuele come arma per imporsi come esaminatore. Il frate trascurò di ammettere che durante la notte, nella solitudine del corridoio fuori dalla cella, aveva dato fondo a tutta la propria determinazione per evitare di perdersi a propria volta in pensieri peccaminosi sulla prigioniera e ai conseguenti atti impuri.
Ma non poteva permettere che i suoi confratelli mettessero di nuovo le mani addosso a quella donna: ne andava della salvezza della loro anima. O almeno questo era quello che si ripeteva.
Con un gesto più brusco di quanto avesse inteso la fece girare, strappandole un piccolo grido di dolore.
La voce gli uscì secca e tagliente dalle labbra improvvisamente aride. - Ora ti scioglierò dalle corde. Non provare a ribellarti o ad attaccarci o i miei confratelli qua fuori te ne faranno pentire. Se hai capito annuisci, non è necessario che parli -
Lei annuì.
Emanuele armeggiò per qualche istante con la corda, riuscendo finalmente a slegare i nodi. Di nuovo la donna gemette di dolore mentre la circolazione riprendeva nelle mani congestionate. I polsi erano illividiti e parzialmente scorticati.
- Ora debbo esaminarti alla ricerca del Marchio di Satana. Per prima cosa cercherò segni nei tuoi occhi. -
Le prese il mento tra le dita, girandole la testa verso la finestra. Agata strinse le labbra, cercando di non chiudere gli occhi feriti dalla luce. Le sue pupille si ridussero a capocchie di spillo, facendo spiccare le iridi. Il monaco le osservò a lungo, ma non trovò altro che delle pagliuzze dorate che si confondevano in quel mare di verde. Si ritrovò a fissarle più a lungo del necessario, come imbambolato.
Si riscosse, consapevole dello sguardo di Fratello Pietro fisso su di lui.
- Nelle iridi non sono presenti segni sospetti. Procedo con l'esame del viso. -
Il confratello intinse la penna d'oca nel calamaio e con cura iniziò a scrivere.
Nel frattempo Emanuele spostò di nuovo lo sguardo sulla prigioniera. Muovendole la testa qua e là con la punta delle dita, scrutò ogni centimetro di quella pelle perfetta. Sotto la polvere e la sporcizia accumulata durante la notte passata in cella non vi erano segni visibili. Solo un naso dritto, sopracciglia che formavano un arco perfetto, lunghe ciglia che contornavano gli occhi, zigomi un po' sporgenti, labbra rosee e carnose, mascella delicata. I loro visi erano vicinissimi, e lui sentiva il respiro di lei sulla pelle e sulla bocca. Quel respiro lo stava sconvolgendo più di quanto avesse mai creduto possibile.
Emanuele si passò la lingua sulle labbra aride e si schiarì la gola improvvisamente secca.
- Nemmeno sul volto sono presenti segni sospetti. -
Fratello Pietro annotò diligentemente, poi si frugò in tasca ed estraendo uno spillone disse: - Fratello, dimentichi questo! -
Emanuele imprecò tra sé e sé, chiedendo subito perdono a Dio. Sperava che il confratello non se ne sarebbe ricordato.
Preso lo spillone, punse con decisione la punta del naso, le gote e la fronte della prigioniera ricevendo in cambio ansiti di protesta e lasciando piccoli fori da cui fuoriusciva una goccia di sangue. Gli dispiacque di segnare così quel bel volto, ma la prassi richiedeva che l'esaminatore cercasse punti insensibili o dai quali non uscisse sangue.
Facendole chinare la testa, le esaminò minuziosamente prima le orecchie, pungendo anch'esse, poi il cuoio capelluto infilando le dita tra le ciocche e scostandole per scoprire l'epidermide sottostante, per guardarla e pungerla. A parte qualche graffio e un bernoccolo, evidentemente risultati della colluttazione, e un paio di morsi di pulce, inevitabili a quei tempi, non vi erano segni. Ma lo scorrere delle ciocche setose tra le dita era una tortura per il monaco, che mai aveva toccato capelli di donna. Deglutì e si schiarì la voce, pensando a quello che lo aspettava dopo. - In testa nessun segno, nessun punto insensibile e da ogni puntura esce sangue. Procediamo con l'esame del resto del corpo. - Fratello Pietro annotò diligentemente la mancanza di segni. Fratello Emanuele, rivolgendosi alla donna, disse brusco: - Spogliati. -
La donna gli rivolse un'occhiata di fuoco. Per un momento Fratello Emanuele pensò che si sarebbe ribellata, poi lei portò le mani tremanti al collo, tentando di scostare i lembi della tunica. Ma i suoi arti ancora gonfi e malconci non le permettevano di sciogliere i lacci.
Il monaco realizzò che doveva pensarci lui. Cercando di non avvicinarsi troppo a quel corpo che di lì a poco sarebbe stato nudo, sciolse tutti i nodi e fece cadere a terra l'indumento.
Alla vista del corpo sottostante il fiato gli si bloccò in gola. Sentì distintamente Fratello Pietro cercare di soffocare l'esclamazione - Santa Maria Vergine! -
Il collo lungo e coperto di chiazze di polvere e sporcizia si ergeva su due spalle dritte e candide. Le braccia riposavano lungo i fianchi, deturpate dal gonfiore e rossore delle mani e dei polsi. I seni, piccoli e impertinentemente rivolti verso l'alto erano sormontati da due piccoli capezzoli rosati che si ergevano nel freddo del mattino.
Uno stomaco liscio, un ventre leggermente tondo e fianchi che si allargavano poco più sotto. Riccioli di pelo celavano la parte di lei che la rendeva donna. Le sue gambe dritte e tornite finivano in piedi piccoli e aggraziati nonostante il fango e la sporcizia che li incrostava. Nella colluttazione del giorno prima Agata aveva perso gli zoccoli e nessuno aveva pensato di recuperarli.
A fatica il frate deglutì ed indicò alla donna di stendersi prona sul tavolo, con le braccia lungo i fianchi.
Quando lei fu in posizione, Fratello Emanuele si avvicinò e le sollevò i capelli, portandoglieli in avanti sulla testa e scoprendo la nuca. Prima di rendersi conto di quello che stava facendo, le sfiorò le sottili e corte ciocche che si arricciavano dietro l'orecchio. L'odore della sua pelle lo colpì come un maglio. Chiuse gli occhi per un secondo, pregando tra sé e sé.
Tornato ad un livello di ragionevole calma, si chinò in avanti, guardando dappresso alla ricerca di macchie o grossi nei. Niente. Spinse lo spillone nella pelle sottile dietro le orecchie e in quella morbida della nuca, suscitando piccoli gemiti.
Scese con lo sguardo sulle spalle, poi sulle scapole. Percorse tutta la spina dorsale con dita leggere, cercando macchie e rilievi, e non trovando nulla se non i piccolissimi nei che praticamente tutti hanno, disposti in maniera perfettamente casuale senza formare alcun disegno. Man mano che scendeva, infilava lo spillone qua e là nella pelle candida e liscia, e la prigioniera sussultava.
Il monaco cercava di non notare la pelle d'oca e le altre reazioni che i suoi gesti causavano alla donna, di ignorare l'effetto che la consistenza setosa dell'epidermide che scorreva sotto le sue falangi e la musica dei suoi piccoli ansiti di dolore facevano alla sua mente e soprattutto al suo corpo. Sembrava che ci fosse un filo rovente teso tra le sue dita e il suo inguine.
Mentre dettava a Fratello Pietro c'era un tremito nella sua voce che non riusciva a controllare.
Le sfiorò i fianchi, infilando lo spillone nella carne soffice, e sentì fremiti che la attraversavano, accompagnati da nuovi gemiti. Nessun segno, nessuna zona insensibile.
Le mani gli tremarono mentre le posava sulle natiche dopo aver accantonato lo spillone. La prigioniera rabbrividì. Emanuele spinse leggermente di lato, scostando le due dolci colline di carne rosata per scrutare anche in mezzo ad esse. Il Marchio del Diavolo poteva celarsi in qualsiasi anfratto del corpo, che andava esaminato minuziosamente. Questo era quello che il monaco si diceva, cercando di nascondere a sé stesso l'intimo turbamento che gli dava l'idea di esplorare nella sua interezza un corpo di donna. Di donna bella come quella che ora giaceva prona sotto le sue mani.
Tutto quello che vide tra quelle natiche tonde fu la grinzosa e rosea apertura posteriore, che si apriva e contraeva impercettibilmente a ritmo col respiro di lei; poco più sotto si intuiva l'inizio della sua femminilità. Radi e soffici ricci chiarissimi contornavano la zona. Chiuse di nuovo gli occhi, respirando a fondo, tentando di scacciare senza troppo successo i pensieri impuri che gli attraversavano la mente. Tentando di bloccare i movimenti che avvertiva a livello inguinale.
Bruscamente mollò la presa e la carne di lei tornò a chiudersi celando alla vista l'ingresso posteriore. Afferrò lo spillone e lo spinse nella carne di una natica, poi dell'altra, più e più volte. La prigioniera inizialmente tese i muscoli, gemendo sommessamente, poi si accorse che così era peggio e si costrinse a rilassarsi. Ma il frate notò che una serie di piccole contrazioni proseguivano a livello dell'inguine e della parte alta delle cosce. Il suo inguine pulsò in risposta.
Abbandonando il sedere proseguì col retro delle cosce, anch'esse con qualche piccolo neo non abbastanza grande da poter rappresentare un Marchio, e scese ancora più sotto.
Le sue mani accarezzarono e punsero i polpacci torniti,e le caviglie delicate. Le punture sui malleoli strapparono alla prigioniera mugolii sommessi che colpirono le già sconvolte orecchie del monaco. Le solleticò la pianta dei piedi, ben sapendo che era lì che molto spesso Satana nascondeva il suo Marchio per celarlo il più possibile alla vista degli emissari di Dio in terra. Ma nemmeno lì c'era nulla, solo la pelle rosea, chiazzata di polvere ed indurita dagli zoccoli. La donna però fremette più forte e rabbrividì a lungo mentre lui esplorava, gemendo forte alle punture e ansimando leggermente quando il monaco le prese delicatamente le dita tra le mani, separandole ad una ad una per controllare anche lì in mezzo. Infilare lo spillone tra le dita fu una tortura per entrambi: i singhiozzi punteggiati da forti ansiti della donna per il dolore in quei punti così delicati suscitavano nell'uomo emozioni che non avrebbe mai pensato.
Stringere quei piedini forti e delicati ad un tempo, ascoltare i gemiti incontrollati così simili a quelli che da bambino sentiva quando gli adulti si agitavano insieme sotto le coperte, era molto più emozionante di quanto il frate si sarebbe aspettato. Le parole del rosario uscivano sempre più strozzate dalle sue labbra, e per un attimo l'uomo pensò che non ce l'avrebbe fatta a procedere con l'esame. Ma non c'era nessun altro che avrebbe potuto farlo senza spingersi al punto di commettere atti impuri sulla donna. Solo lui. Anche se la sua forza stava vacillando.
Le disse di girarsi supina.
Il suo corpo si contorse come quello di un'anguilla, i seni oscillarono e i muscoli guizzarono, e l'inguine di Fratello Emanuele diede un nuovo strappo. I suoi occhi incontrarono quelli della prigioniera, enormi e bagnati di lacrime trattenute, e per un lungo istante rimasero ancorati ad essi. Vi lesse una vitalità e una tristezza infinite, un guizzo di rabbia impotente e una grande determinazione. Da quello sguardo capì che la donna sapeva che sarebbe morta, che non voleva morire, ma che era consapevole di non poterci fare nulla, che sarebbe andata incontro ad una tortura ben peggiore delle punture dello spillone, ma che l'avrebbe affrontata con dignità.
La mente di Agata era in tumulto. Come un uccello in gabbia, sapeva di non avere scampo, che la morte l'aspettava più tardi nel pomeriggio, o se le fosse andata male, più avanti quella settimana tra atroci dolori. La rabbia cercava di emergere e divorarla, ma lei la reprimeva sapendo che era inutile, non poteva lottare, Dio l'aveva fatta donna e quindi debole, contadina e quindi senza alcun potere, e tutto il potere era in mano agli uomini che avevano già decretato il suo destino nel momento in cui avevano accettato la denuncia del mastro tintore.
Spaventata, addolorata ed impotente, non avrebbe dovuto provare quello che stava provando: deliziosi formicolii e brividi al tocco delle mani delicate di quel monaco, improbabili stilettate di piacere quando lo spillone penetrava la sua carne. Non poteva vedere il suo volto quando era prona, ma sentiva il suo respiro strozzato, le sue mani tremanti, le parole smozzicate del rosario e quelle di commento all'esame che uscivano a fatica.
Non era possibile che provasse sotto quel tocco ciò che aveva provato l'estate prima al prato della Fonte Amara tra le braccia di Arnaldo l'apprendista vasaio. Non era possibile che il dolore dello spillone, così diverso da quello delle botte e della corda che le aveva lacerato i polsi, fosse così delizioso.
Chiuse gli occhi e tentò di concentrarsi sul piacere che il suo tocco le dava. Sapeva che presto il dolore/piacere sarebbe stato sostituito dal dolore/dolore. O, a Dio piacendo, dall'oblio eterno.
Emanuele era disgustato da sé stesso. Era un monaco, consacrato a Dio, vincolato dal voto di castità, eppure si era perso in quegli occhi verdi, e le reazioni inequivocabili del proprio corpo erano un chiaro indice di quanto vicino fosse a cadere in tentazione. E doveva ancora esaminare la parte peggiore della prigioniera.
Delicatamente le prese una mano, ancora gonfia e arrossata, esaminandola dito per dito. Con cautela sfiorò la pelle lacerata dei polsi, e sentì la donna mugolare di dolore. E in qualche modo al suo orecchio questo suono apparve diverso da quello che la prigioniera aveva emesso in precedenza ad ogni puntura. Era come se questa sofferenza fosse...più dolorosa. Vide il suo volto contrarsi brevemente in una piccola smorfia di dolore, ma lei non aprì gli occhi. Fu con cautela che punse la pelle gonfia, ma anche così lei gridò.
Risalì con lo sguardo lungo il braccio, rigirandolo con cautela tra le mani per esaminare tutta la superficie, ma anche lì non c'era nulla. I singhiozzi e i sospiri ad ogni puntura si fecero però sempre meno grevi man mano che si allontanava dall'estremità. Allargò l'arto per guardare anche sotto l'ascella, scostando con le dita i riccioli chiari dei suoi peli. La donna fremette di nuovo. La vicinanza del seno alla sua mano diede la stura ad una nuova serie di impuri desideri, che il monaco represse recitando più forte l'ennesima Avemaria.
Girando intorno al tavolo esaminò allo stesso modo l'altro braccio poi inspirò a fondo. Non poteva più rimandare il momento.
Percorse le clavicole con lo sguardo prima, con lo spillone poi, e con un'ultima preghiera scese più sotto.
Restò a lungo imbambolato a fissarle il seno. Giovane, fresco e alto. Candido e perfetto, senza alcun segno.
I piccoli capezzoli, di un rosa chiaro, erano di nuovo tesi, forse per il freddo. Forse, disse una vocina viziosa nella mente del monaco, perché le piace il tuo tocco. Con un'altra preghiera, Fratello Emanuele chiese perdono a Dio per quel pensiero peccaminoso. E assurdo.
E poi, posato lo spillone, dovette toccarli. Per scostarli leggermente e osservare bene la pelle nel solco tra essi, e quella appena sotto e di lato, che rimaneva un po' coperta, fu la spiegazione che diede a sé stesso e a Dio. Ma l'erezione ormai completa che sfregava contro la grezza stoffa della tonaca diceva tutt'altro.
I capezzoli duri premettero contro i suoi palmi, il respiro della donna accelerò, e il monaco vacillò, quasi perdendo l'equilibrio.
Ansimando spostò le mani e le posò sul tavolo. Tremavano. E il peggio doveva ancora venire. Lo spillone gli scappò di mano la prima volta che cercò di prenderlo.
Cercando di controllare il movimento della mano accostò la punta al seno sinistro e spinse con forza. Gli rispose un lungo gemito, e il corpo di lei che si contorceva. Non e diede il tempo di ansimare: strinse il capezzolo tra le dita, avvertendo l'ennesima stilettata all'inguine, e lo bucò. La prigioniera si morse il labbro per soffocare almeno in parte il lamento che le sfuggì dalla gola. Il monaco ripeté la procedura con l'altro seno, cercando di non guardare il corpo sinuoso che si contorceva sul tavolo.
- Nessun segno o punto insensibile sul torace. - Riuscì a dire a Fratello Pietro, ma i suoi occhi erano solo per la prigioniera
Lo stomaco della donna si alzava e abbassava col respiro che si era fatto rotto e laborioso. Candido e liscio, anch'esso non recava segni particolari, prima che lui lo costellasse con una rosa di piccoli fori che sanguinavano appena. Così come il ventre. L'ombelico era un foro perfetto posizionato esattamente al centro di quella distesa di morbida pelle, attorniato da una leggera peluria quasi invisibile. Il frate la osservò affascinato, sfiorandola con le dita, e poi lasciandosi andare ad un impulso irrefrenabile le spinse lo spillone nel foro naturale. La prigioniera si contorse sotto di lui, lasciandosi scappare un suono che era un misto di risata, gemito e protesta. Il suo inguine pulsò ancora in risposta. Il monaco non pensava che sarebbe potuto diventare così duro.
E poi non ci fu più modo di procrastinare: doveva esaminare qualcosa su cui mai, nemmeno da bambino prima di entrare in convento, aveva posato lo sguardo. Solo allora si accorse che Fratello Pietro si era alzato e si era avvicinato per vedere meglio, posando il foglio di pergamena su cui stava redigendo il resoconto dell'esame sul tavolo accanto al tallone della presunta strega.
Deglutì, e al terzo tentativo riuscì a dire alla prigioniera: - Allarga le gambe - .
Davanti a lui si spalancarono le porte dell'inferno.
L'ansito del confratello coprì in parte il suo gemito strozzato.
I riccioli biondi sormontavano il monte di venere, ma più sotto erano sottili e radi, e non celavano nulla della femminilità della donna oscenamente aperta davanti ai due religiosi.
Una serie di pieghe rosee si schiudevano, umide di un fluido chiaro e vischioso, e stavano a guardia del nero pozzo della perdizione.
- E'...è bagnata - singhiozzò Fratello Pietro, e solo allora Fratello Emanuele capì il senso di battute captate qua e là da bambino o quando viaggiando prima e dopo clausura gli era capitato di fermarsi in qualche locanda.
Gli parve strano, però. Ma forse era solo una reazione fisiologica al dolore.
Tremando, passò le dita tra i ricci, pungendo qua e là, e più pungeva più la donna gemeva e si contorceva, e più Fratello Pietro accanto a lui ansimava.
Riuscì per un istante a distogliere lo sguardo dalla donna per osservare il confratello: da sotto la tonaca si vedeva distintamente il membro sporgente, in evidente stato di erezione. Come il proprio. Stringendosi nelle spalle l'altro monaco citò Sant'Agostino: - Le donne non dovrebbero essere illuminate o educate in nessun modo. Dovrebbero, in realtà, essere segregate poiché sono loro la causa di orrende ed involontarie erezioni di uomini santi. -
Entrambi si voltarono di nuovo a contemplare la causa del loro peccato: la pelle bianca coperta di segni rossi e piccole goccioline di sangue, gli occhi serrati, il volto contratto, le mani ancora arrossate e gonfie strette a pugno, le cosce spalancate e tremanti e, lì in mezzo, la fonte di tutte le impudicizie. Che calamitò di nuovo lo sguardo di entrambi.
Fratello Emanuele ormai faticava a stringere l'ago. Confuso, non capiva se tutta quell'eccitazione fosse dovuta alla nudità della prigioniera o al dolore che le stava infliggendo. O ad entrambi, suggerì la sua mente infiammata...
Chinandosi per cercare da vicino il Marchio, sfiorò con un dito le rosee pieghe di pelle che correvano ai lati dell'orifizio, e sentì la donna cercare di trattenere un ansito. La tradì il tremito nelle cosce.
L'odore di femmina, di lussuria e peccato era fortissimo, gli faceva girare la testa e sentì la propria determinazione vacillare. Voleva posare la faccia, le labbra su quella carne morbida ed inebriante, leccarla, berla e sentire ancora il suono di quell'ansito trattenuto.
Con uno sforzo immane si riscosse e calò lo spillone sulle labbra. Ad ogni puntura un nuovo gemito, una contorsione, il liquido vischioso che aumentava sotto le sue dita, l'erezione sempre più prepotente che pulsava dolorosamente.
Giù lungo un lato, poi sulla carne tra la vagina e l'ano, e di nuovo su dall'altro lato a chiudere il cerchio. La prigioniera non riusciva più a stare ferma, le sue cosce tremavano e si contraevano, i suoi gemiti ed ansiti erano sempre più strozzati, e dall'orifizio del peccato fuoriusciva un costante stillicidio di liquido.
Quando il monaco sfiorò la piccola e rosea sporgenza di carne che sormontava le pieghe, la donna si mise a singhiozzare. Provò a premere, e la sentì dura. La prigioniera cercò di arretrare col bacino, ma poi tornò indietro come a premersi sulla sua mano. Quando l'ago la trafisse, si lasciò andare in una serie di gemiti spezzati, tremando incontrollabilmente.
Stava godendo...non era possibile! Quell'uomo la torturava con uno spillone, e lei anziché contorcersi dal dolore ne traeva piacere! Doveva essere impazzita, la paura e la certezza della morte le stavano giocando brutti scherzi...
Ci volle tutta la sua forza di volontà per trattenersi dal premersi ritmicamente sulla sua mano, per cercare di emettere i gemiti che non poteva bloccare come se fossero suoni di dolore e non di piacere, per tenere gli occhi serrati così che non si vedessero le sue pupille dilatate. E ci riuscì solo grazie alla presenza dell'altro uomo, al disgusto che le dava il suo sguardo lascivo, alla rabbia che le avevano messo le sue parole. Maledetto ipocrita! Ma grazie a Dio l'esame era quasi finito...ora il monaco sarebbe passato alle cosce, e agli stinchi, e lei avrebbe potuto rilassarsi un po'.
Sentì una puntura sul tendine che collegava l'inguine alla coscia e dalle labbra le sfuggì l'ennesimo incontenibile gemito.
E poi le parole che non avrebbe mai voluto sentire. La voce spezzata, disgustosamente ansimante dell'altro frate.
- Aspetta...devi controllare anche dentro! -
- Aspetta...devi controllare anche dentro! -
Sconvolto Emanuele si voltò a guardare Fratello Pietro. No, non poteva dire sul serio.
Ma sul volto lascivo del confratello si era formata una piega determinata. Ormai l'uomo aveva abbandonato la penna e si toccava senza ritegno sotto la tonaca.
- Se non lo fai tu, lo farò io! -
NO! Qualcosa dentro di lui si ribellò all'idea che il confratello mettesse le sue luride, peccaminose mani su quella che ormai considerava la - sua - prigioniera.
Prima che l'altro potesse muoversi, posò lo spillone e avvicinò le dita all'apertura, saggiandone i contorni. La donna tremò impercettibilmente. Stava trattenendo il fiato.
Lentamente, Fratello Emanuele insinuò un dito nell'orifizio. Era caldo, scivoloso, palpitante. Caldo.
Con voce roca, bassa e ansimante Fratello Pietro disse: - Muovi bene il dito dentro...frugala...devi cercare il Marchio! -
Il monaco, come in trance, prese a muovere il dito nella vagina della prigioniera, spingendolo in fondo, estraendolo, spingendo di nuovo. Lei muoveva il bacino come a sfuggirgli, emetteva piccoli gemiti ansimanti che gli martellavano le orecchie, e l'interno del suo corpo si faceva sempre più caldo, bagnato e sussultante.
Con un angolo della sua coscienza Emanuele si rese conto che il confratello si era sollevato la tonaca, ed ora si stava masturbando violentemente un pene violaceo e congestionato, ma in quel momento non gli importava, lui pensava solo all'orifizio che stringeva il suo dito, e al resto di quel corpo di donna tremante e morbido, più invitante di qualsiasi cosa su cui avesse mai posato gli occhi.
Agata aveva superato il punto di non ritorno. Una piccolissima parte della sua consapevolezza sapeva che doveva evitare le reazioni esagerate, che non doveva far capire loro quanto stesse godendo, e grazie a quella parte riuscì ad aggrapparsi al tavolo con le mani dolenti, a immobilizzare la maggior parte dei suoi muscoli, e a soffocare la maggior parte dei gemiti.
Perchè la verità era che il tocco del monaco la stava facendo impazzire. E non solo il tocco. Ora aveva aperto gli occhi, e lo guardava in volto, e lì leggeva la sua eccitazione, il suo desiderio, il suo piacere, specchio dei propri. Incontenibili, incontrollabili, non voluti e spaventosi per lui come per lei.
Occhi negli occhi il monaco ormai non fingeva più di esplorarla: semplicemente le infilava le dita, che ora erano diventate due, sempre più a fondo, sempre più violentemente, in un'imitazione dell'atto sessuale, e con l'altra mano le stringeva il clitoride infiammato e dolorante dalla puntura precedente, mandandole spasmi su per la spina dorsale. I loro respiri affannosi entravano ed uscivano all'unisono.
La donna sentiva l'orgasmo montare, e si preparò mentalmente a reprimerne gli effetti più visibili.
Poi tra un'ondata e l'altra di piacere Agata vide l'espressione sul volto dell'uomo cambiare leggermente, farsi più intima e sicura. Deliberatamente il monaco tolse le dita dalla vagina, senza smettere di stringere il clitoride, e con la mano libera afferrò lo spillone, lo infilò nell'orifizio palpitante che si contraeva nei primi spasmi dell'orgasmo e lo piantò nella parere vaginale.
Agata si inarcò emettendo un suono che era un gemito, un singhiozzo e un urlo allo stesso tempo. Saette di dolore e piacere, fuoco nelle vene, vide rosso per un momento infinito mentre veniva e veniva, le mani talmente strette sui bordi del tavolo da ferirsi, i muscoli contratti per mantenersi il più ferma possibile al punto da provocarsi dei crampi.
Un altro urlo, strozzato, accompagnò il suo, e quando infine Agata recuperò la vista, vide gli ultimi schizzi di sperma uscire dal membro congestionato del monaco lascivo, e colpirle il piede e la caviglia.
L'altro monaco aveva mollato lo spillone, e appoggiato al tavolo ansimava pesantemente, con la testa china e il membro ancora eretto che sembrava voler bucare la tonaca.
Senza sollevare lo sguardo quest'ultimo disse con voce tesa, gelida e irata: - Ricomponiti, Fratello Pietro, e pulisci la prigioniera. Poi torna al tuo posto e non azzardarti più a muoverti o a fiatare per tutto il resto dell'esame. Penseremo poi alla nostra penitenza per questa impudicizia. -
Poi prese in mano lo spillone, e con mani ancora tremanti riprese l'esame di cosce, ginocchia e stinchi. Maneggiava la carne di Agata come se lo disgustasse, e probabilmente era così. Grazie a Dio finì in fretta, e corse a chiamare gli altri aguzzini per farla riaccompagnare in cella. Anche se non aveva trovato alcun Marchio, la prova dell'acqua si sarebbe tenuta comunque.
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Con l'ennesimo violento strattone la sollevarono di nuovo fuori dall'acqua. Appesa per le braccia, le sue spalle urlavano di dolore, il suo petto era un'agonia di bruciore. Tossì violentemente, sputando acqua e saliva, cercando convulsamente di respirare. Mentre inalava profondamente, la fecero piombare di nuovo nel fiume gelido. Inghiottì acqua, di nuovo. Le venne un conato di vomito, bolle di aria le solleticavano il viso facendole prudere il naso che fremeva per respirare. Non ce la faceva, doveva prendere aria. Aprì la bocca, e di nuovo lo strattone la riportò fuori.
Stavolta non fece in tempo a prendere una boccata consistente d'aria, e una volta sotto bevve ancora di più. Sentiva i polmoni in fiamme, e le forze la stavano abbandonando.
Quando riemerse la volta successiva, non ce la fece quasi nemmeno ad aprire la bocca.
Poi le acque si chiusero ancora sulla sua testa, ma invece che chiare nel sole di mezzogiorno, le sembrarono buie e impenetrabili. La sua mente stava smettendo di funzionare, il petto chiedeva aria, aria che non poteva avere. Chiuse gli occhi e sentì la benedizione dell'oblio. L'ultimo pensiero coerente prima di spegnersi fu: - Grazie, Dio...mamma, papà, vengo da voi! -
Un bruciore fortissimo alla gola e al petto, dolore, un dolore accecante dappertutto. Riuscì a voltarsi di lato e vomitò acqua fino a farsi girare la testa. Poi tossì finché non le sembrò che i visceri volessero uscire.
Viva.
Un senso di amara, cocente delusione la prese.
Era viva. Viva per venire torturata di nuovo, viva per essere un giocattolo nelle mani di uomini impietosi che la odiavano per il solo fatto di essere femmina. Si accasciò di lato, raggomitolandosi su sé stessa. La fine rapida che aveva sperato non era arrivata, e ora non le restava che cercare di isolare la propria mente. Di non sentire le grida dei suoi compaesani, gli sputi, i calci di quelli che erano riusciti ad avvicinarsi.
Le mani dei monaci sui suoi vestiti bagnati, la corda che le segava i polsi e martoriava le spalle. Gli scossoni del carro nel ritorno alla canonica.
Le tolsero di nuovo gli abiti zuppi e le chiusero due manette ai polsi, ammanettandola nuda alla fredda parete di pietra. Il busto inclinato in avanti poggiava su una superficie di pelle non trattata, che le graffiava i seni e il ventre, e le caviglie erano allargate e incatenate a terra.
Agata aveva tenuto gli occhi chiusi il più possibile per non vedere i suoi torturatori, e gli strumenti che avrebbero usato su di lei. Sapeva però che erano presenti tutti e quattro i monaci, ne aveva riconosciute le voci.
Il monaco che l'aveva esaminata diede gli ordini agli altri. - Fratello Ireneo, Fratello Domenico, mettetevi alla porta e non fate entrare nessuno. Fratello Pietro, sarai di nuovo tu a redigere gli atti. -
Gli altri frati borbottarono ma dai fruscii delle vesti e dal rumore della sedia Agata dedusse che gli avevano obbedito.
Dei passi si avvicinarono a lei e il monaco le fu al fianco. Si chinò su di lei, le prese il mento tra due dita, voltandole la testa e stringendo dolorosamente, costringendola ad aprire gli occhi. Agata li piantò in quelli di lui, scuri, dilatati, stanchi.
- Non voglio farti del male, - le disse - non mi piace torturarti, quindi confessa ora, dimmi chi sono le altre streghe, dove vi incontrate e che riti compite, e avrai una morte rapida. -
Agata cercò di ridere, ma la gola infiammata non glielo permise. Emise un suono che somigliava a un gracidio invece. - Frate, tu sai benissimo che non sono una strega, quindi non posso confessare nulla. E di sicuro non metterò altre donne innocenti in queste stesse condizioni. Fai quel che devi, e io cercherò di morire il più in fretta possibile per il sollievo di entrambi. -
Pronunciare quella frase mantenendo un tono neutro fu la cosa più difficile che avesse mai fatto, e finito di parlare chiuse gli occhi, per nascondere a quell'uomo le lacrime che listavano annegando e per non vedere la pietà che albergava in quelli di lui. Quando l'uomo le mollò il mento, posò la fronte sulla ruvida pelle del supporto che le piegava il corpo in avanti. In quel momento si rese conto che in quella posizione, con le gambe divaricate, i monaci avevano una comoda visuale sulla sua intimità...ma che importava, ormai?
L'uomo si allontanò di qualche passo, spostò qualche oggetto e infine si piazzò dietro di lei. - Mi dispiace. - Disse, e c'era una nota di genuino rammarico nella sua voce. Poi un sibilo, e una striscia bruciante le si incise nella parte bassa della schiena e nella mente.
Agata gridò, più per la sorpresa che altro. Faceva male, ma non era insopportabile...un po' come le punture di spillone della mattina. Prese un respiro, poi il secondo colpo atterrò sulle natiche. Strillò di nuovo, inarcandosi e tirando i vincoli che la legavano alla parete e al pavimento. Un altro colpo, sulla parte alta delle cosce. Poi ancora le natiche, l'attaccatura della schiena, le natiche.
La parte inferiore del suo corpo era in fiamme, ma in mezzo al bruciore iniziava a farsi strada un'assurda eccitazione, alimentata anche dallo sfregare della pelle grezza contro i capezzoli e dall'ansimare del monaco dietro di lei. Se lo immaginava con gli occhi fuori dalle orbite e il membro teso nella tonaca, incapace di distogliere lo sguardo dalla sua intimità esposta e dal suo posteriore arrossato, e incredibilmente questa immagine mentale anziché disgustarla la eccitava.
Fratello Emanuele ansimava pesantemente, cercando invano di sopprimere l'erezione che gli montava sotto la tonaca, cercando di smettere di guardare la prigioniera tra le cosce. Sapeva che l'immagine della sua intimità esposta tra le natiche segnate dalle strisce rosse dei suoi colpi avrebbe perseguitato i suoi sogni per lungo tempo, e che nessuna penitenza sarebbe riuscita a cancellarla. Ma nemmeno la minaccia del fuoco dell'inferno poteva distoglierlo da quella vista.
Sollevò il braccio e lo calò, e il frustino sibilò di nuovo nell'aria prima di colpire di nuovo la parte bassa della schiena candida, lasciando una nuova linea rossa. Una nuova scossa gli prese l'inguine, e ancora, e ancora man mano che i suoi colpi calavano sulle natiche, sulla curva lombare e sulle cosce della donna. Ognuno dei suoi gemiti era una stilettata alla sua eccitazione, che si protendeva in avanti stagliandosi sulla linea della tonaca.
Vedeva sé stesso sollevarla, esporre il membro congestionato, avvicinarsi alla prigioniera e prenderla così, con un colpo violento, penetrando a fondo nell'orifizio che intravedeva umido dello stesso liquido vischioso del mattino, e che ricordava caldo e fremente.
Se lo immaginava, lui che non aveva mai conosciuto donna, stretto intorno al suo pene, e solo il suo immenso autocontrollo lo trattenne dal mettere in pratica ciò che la sua fantasia gli suggeriva.
I colpi del monaco si fecero più serrati, così come il suo respiro sempre più laborioso. Il bruciore, il calore che le si diffondevano dal sedere all'inguine le rendevano difficile respirare, e la parte anteriore del suo corpo, compreso il clitoride in fiamme, sfregavano contro la pelle grezza del supporto. Più volte la punta del frustino che il frate stava usando su di lei andò a colpirle le labbra, strappandole gemiti di inaspettatamente intenso piacere.
Aprì gli occhi, girandosi per un istante a guardare: il volto dell'uomo era come trasfigurato, lo sguardo fisso su di lei, la bocca aperta, il desiderio che combatteva con il rigore sui suoi lineamenti. Il fallo proteso in avanti che sollevava la stoffa grezza della tonaca. Si voltò di nuovo, posando la fronte sulla pelle, immaginandosi che lui si togliesse la tonaca e la penetrasse così, violentemente, lì davanti agli altri monaci. Che la allargasse, la colmasse, e infine la riempisse del suo seme. Per quel che le concedevano le manette alle caviglie, divaricò ancora un po' le gambe, esponendo maggiormente la vulva ai colpi di frustino, che non si fecero attendere: sembrava che il frate avesse capito, e mirasse proprio lì, sulla sua carne sensibile, bagnata e palpitante.
C'erano solo loro due in quella stanza: il rumore del frustino che sibilava nell'aria, i loro respiri spezzati, gli impatti, i gemiti. Prigioniera e aguzzino erano vincolati da un legame incomprensibile perfino a loro stessi. Gli altri monaci non avevano importanza, non esistevano più...almeno finchè il più grosso non ruppe l'incantesimo, esclamando: - Fratello Emanuele, così non va bene. Le fai le carezze! Non vedi che sta quasi godendo! Spostati, ci penso io! - E scacciato il confratello in malo modo, afferrò il frustino e lo calò con violenza inaudita sulle spalle di Agata, che gridò di dolore. Ora non godeva più, la bruta forza di questo monaco le imprimeva solo un'atroce sofferenza. Un colpo più forte degli altri spezzò il frustino, allora l'uomo si avvicinò a lei, le afferrò la testa e le gridò in faccia, investendola con il suo alito fetido: - Allora, confessi, strega? - E al suo debole cenno di diniego, la colpì al volto con un pugno. Un attimo di dolore, stelle che le danzavano davanti agli occhi e poi un benedetto oblio.
Si risvegliò molto più tardi nell'oscurità della sua cella, dolorante. L'avevano rivestita, ma gli abiti ancora umidi si appiccicavano fastidiosamente al suo corpo, soprattutto alla schiena martoriata dal monaco più grosso. Cercò di alzarsi in piedi ma la testa le girava, la mascella le doleva in una maniera quasi insopportabile e pensava che almeno un dente si fosse allentato. Pensò con nostalgia alle proprie erbe, ordinatamente riposte sulla mensola in fondo alla sua capanna. Una fitta di dolore diverso da quello fisico delle botte la trafisse. Non avrebbe più rivisto la sua casa. Non avrebbe più rivisto nulla, se non questa cella e la stanza dove l'avevano torturata. Non avrebbe provato più nulla se non dolore, e, se le andava bene, ancora un pochino di quell'inaspettato piacere. Ma da come erano andate le cose, sospettava che anche quello le sarebbe stato negato.
Seduta sul pavimento freddo nonostante il dolore alle natiche sferzate, si strinse a fatica le ginocchia al petto e posataci sopra la testa scoppiò a piangere.
Un rumore attirò la sua attenzione, facendole rialzare il volto chiazzato di lacrime: qualcuno stava girando una chiave nella toppa. Un gelido terrore le attanagliò le viscere. Erano già tornati a prenderla per ricominciare con la tortura.
Una testa con la tonsura fece capolino dalla porta. Fratello Emanuele, l'aveva chiamato il monaco più grosso. Conscia dell'inutilità del gesto, Agata si tirò contro la parete, allontanandosi il più possibile da lui.
Era solo, e anziché cercare di afferrarla e trascinarla fuori, si socchiuse la porta alle spalle e si posò un dito sulle labbra, chiedendole silenzio. Alla luce della lucerna che teneva in mano appariva stanco e provato.
Agata non fiatò, aspettando che fosse lui a parlare.
L'uomo sussurrò: - Riesci ad alzarti? Svelta, dobbiamo andare - .
Andare? Dove? Agata si rincantucciò ancora più contro la parete, sfregando dolorosamente la schiena sulle pietre.
- Non c'è tempo, i miei confratelli hanno appena recitato mattutino e poi sono andati a dormire, verranno a darmi il cambio per le laudi, e per quell'ora dovremo essere ben lontani da qui! -
La donna lo guardò confusa: ma cosa stava dicendo? Poi notò il sacco che l'uomo aveva sulle spalle, e vide che non era più vestito da monaco: aveva un paio di brache e una tunica che avevano tutta l'aria di essere stati sottratti dall'armamentario dei servi della canonica, e un mantello verde con cappuccio. Voleva davvero scappare con lei o era un'altra, perfida tortura? Decise che valeva la pena di rischiare. Cercò di alzarsi appoggiandosi alla parete, e faticosamente si tirò su ma come provò a staccarsi dal muro barcollò, tornando ad appoggiarsi. Le girava la testa, le tremavano le gambe. Era debole per il digiuno, le botte e l'immobilità forzata.
Fratello Emanuele si avvicinò, tendendole un braccio. Agata si appoggiò, e a piccoli passi si avviarono alla porta. Il monaco le sussurrò all'orecchio: - Appena saremo abbastanza lontani, potrai mangiare qualcosa. Devi recuperare le forze! -
In cima alle scale la donna stava ansimando per il dolore e la fatica, ma stringendo i denti andò avanti. I suoi passi, sebbene più pesanti, erano sempre più sicuri man mano che le si schiariva la mente. L'aria fredda della notte la rinfrancò, e quando il monaco le mostrò un cavallo già sellato il suo spirito si sollevò: forse alla fine non era un trucco!
L'uomo la aiutò a montare, e lei strinse i denti quando le sue natiche ferite ed infiammate si posarono sulla sella e ricevettero tutto il peso del suo corpo, poi prese la cavezza e condusse la cavalcatura verso il portone, tenendola in mezzo al cortile dove la terra era più smossa in modo che facesse meno rumore possibile. Il battente scricchiolò leggermente, ma furono fuori in un attimo.
Quando il monaco montò davanti a lei, gli sussurrò: - Dobbiamo passare da casa mia...ho bisogno delle mie erbe per curare le ferite, e poi da lì conosco tutti i sentieri più nascosti per allontanarci non visti da qui! -
Fratello Emanuele ci pensò un secondo e poi annuì. Si allontanarono al passo, osando lanciare il cavallo al galoppo solo ad una certa distanza dalla canonica. Gli scossoni della corsa erano tanti coltelli che trafiggevano la donna alla schiena e soprattutto alle spalle, e solo con la forza di volontà riuscì a restare aggrappata a lui.
Arrivati alla casetta la donna raccolse le ultime forze e balzò giù dal cavallo, precipitandosi dentro. Presero tutto ciò che potevano trasportare, e ripartirono.
Agata diede un'ultima occhiata di rimpianto all'unica casa che avesse conosciuto, poi si voltò risoluta. - Da quella parte! - disse all'uomo che forse, ora, sarebbe stato la sua casa.
Ashara