Ti ricordo così com'eri e non come sarai adesso. Non voglio vederti, non voglio rivederti dopo la carezza avara concessa dal tempo, che tutto trascina in fondo alla valle dopo averci illusi di risalire una china.
Chissà quanta polvere sul tuo vestito da sposa, chissà quanti baci nel frattempo hai spalmato su migliaia di labbra, ma io ho ancora quel gusto dolce e amaro del tuo rossetto misto alla saliva, in quel grigio giorno di maggio, appena sospeso dentro una pallida ombra di sole.
Non potevo sapere chi fossi davvero, non potevo immaginare quanto fosse pesante il fardello di un nome sopra le tue deboli spalle, per me eri solo "Milady" e così ti volevo chiamare. E' buffa la vita, a volte ti fa incontrare tante ombre che scompaiono ancor prima di poterle sfiorare, ed io fui il primo uomo a trascinarti oltre il grigiore di quei marmi solenni, il primo ad averti... fuori dal tuo matrimonio.
Non dissi nulla quando, sorridente, sbucasti dal vicolo millenario di quel minuscolo borgo antico, ma subito compresi il perché della scelta di un luogo così fuori mano, e mentre ti stringevo in un abbraccio, il mio cuore prese a battere come un tamburo impazzito.
Non fu facile accettare che tu non fossi una ragazza come tante. In fondo lo avrei preferito, non potevo sapere che tu avessi già deciso di commettere con me il più delizioso dei peccati... non potevo immaginare che a due passi da quella piazzetta medioevale ci fosse la casa in cui eri nata solo trent'anni prima.
Ti presi per mano... oppure fosti tu a farlo, io non potei far altro che seguirti sotto all'arco di mattoni rossi che dava accesso al minuscolo cortile. Ricordo ancora il profumo intenso delle rose antiche abbarbicate sui muri interrotti qua e là dalle pietre di fiume, mentre il rumore cristallino del torrente copriva in parte le tue parole.
Il fragore della cascata non ci lasciò mai più soli in quel mattino uggioso, e le tue mani correvano veloci tra gli scaffali dipinti ad olio alla ricerca di qualcosa di speciale. Sapevi quanto io amassi il tè alle rose, e forse avevi scelto quel luogo proprio perché eri ormai certa di conoscere i miei gusti ed i miei desideri. In quell'istante compresi davvero quale magia stesse nascendo tra di noi.
Bastò un minuto seduti accanto, un biscotto spezzato con maestria, e le nostre labbra a raccogliere le briciole sulla pelle calda... poi s'incontrarono golose uno dell'altra. Il mondo chiuso fuori e noi dentro un pezzo di cielo in una stanza, come due alveari che vogliono fondere il gusto dolce che hanno dentro, mentre vibrano eccitati dall'evento che sta per compiersi.
Fu il tuo seno ad appagare per primo la mia voglia, mentre tu, in ginocchio tra le mie gambe, ti stringevi al mio corpo con le unghie piantate dentro la schiena. Sento ancora adesso il contatto della tua bocca sul mio petto, e più giù... il calore immenso che accolse il mio sesso appena liberato dalla sua angusta prigione.
Quale immane tremore mi prese mentre lo sfioravi con i tuoi deliziosi capezzoli dall'aureola appena accennata e poi, giocando, lo nascondevi tra le tue forme tonde, stringendolo in una soffice morsa in cui avrebbe desiderato morire.
Io invece avrei voluto travolgerti lì, su quel tavolino centenario che a stento reggeva il peso del vaso colmo di fiori di campo, ma compresi che volevi essere tu a comandare il gioco, tu... da troppo tempo oggetto... e non padrona del desiderio.
Ci baciammo per ore... e goccia dopo goccia fu colma la brocca dorata dell'attesa, pronta a tracimare, rovesciando sul tappeto la più inimmaginabile delle voglie e il più torbido dei desideri. E nemmeno quando la porta si aprì alle mie spalle compresi il senso di ciò che stava accadendo. Un'altra donna... un'altra donna... si sedette sulla poltrona a fiori posta di fronte a noi.
Non pensai all'inganno e nemmeno lo credo ora, mi ritrovai d'incanto come un vecchia quercia scossa tra il vento e la burrasca, e a nulla valse il mio cercare di resistere a due bocche troppo avide che si rincorrevano l'un l'altra, mentre il mio candido piacere scivolava tra le labbra schiuse in quella voluttuosa contesa.
Non mi lasciasti mai solo nemmeno un secondo, nel tuo dividerti equamente tra due corpi diversi ma uguali nella voglia di stringerti e possederti. Mentre mi spingevo dentro di te avvertivo la sua lingua veloce che saettava tra la carne in cerca del succo che colava tra le tue gambe nervose. Mi guardavi un attimo prima di gridare, per farmi comprendere quanto fosse immenso il tuo godere.
L'altra non l'ebbi mai... e in fondo perché l'avrei dovuta avere, altro non era che una schiava pronta a ripulire il tuo ventre, la tua bocca e il mio sesso per concederci il gusto di ricominciare da capo. Di lei ricordo solo la cura nell'ispezionare ogni millimetro di pelle per sciacquarla con la sua saliva, e quel viso elegante ma insignificante se paragonato al tuo.
Urlai... sì, urlai quando le sue dita frugarono nel tuo sesso alla ricerca del mio, separate solo da quell'effimero velo di carne che lo dividevano dalle viscere in cui stavo spingendomi con foga. Mi fermai solo il tempo per sentire il tuo ordine secco in cui le chiedevi di leccarti proprio lì all'apice della labbra... ed un secondo dopo la tua voce divenne l'eco della mia interminabile follia.
Quante volte ci siamo presi e dati piacere in quella giornata senza sole, ed ogni volta fu la tua schiava a rigenerare le nostre forze scomparse nell'attimo fuggente dell'orgasmo. Ogni volta col suo tocco delicato e suadente, e se mai avesse voluto parlare, il rumore della cascata là fuori era troppo forte per poter ascoltare altre parole... che non fossero le tue.
Abel Wakaam