Tutti lo chiamavano il restauratore, un soprannome che derivava dalla sua professione, visto che riportava all'originario splendore mobili e suppellettili antiche, destinati all'oblio di qualche umida cantina. Io, romanticamente, ho sempre creduto che con quelle mani sapienti e laboriose restituisse linfa vitale anche alle proprietarie di quei pezzi d'antiquariato, troppo spesso spente dall'indifferenza dei loro mariti. Me le potevo quasi immaginare, nel pieno della loro bellezza matura, languide e palpitanti, che varcavano la soglia del suo laboratorio per andare a riprendere uno scrittoio o un tavolo restaurati. Ne accarezzavano la superficie di nuovo liscia, profumata di cera d'api, ascoltando ammaliate la sua voce che spiegava i lavori eseguiti e distraendosi osservando la sua bocca. Lui sapeva coglierle quelle sfumature: un leggero rossore, un fremito involontario ed eccole intrappolate nella sua tela. Il mobile appena restaurato diventava immediatamente un altare alla passione ed esse le vittime da offrire in sacrificio. Il restauratore con le sue mani grandi e ruvide le faceva gemere di un piacere inaspettato, con la sua bocca avida si intrufolava fra gambe che non opponevano più nessuna resistenza, preparando i loro sessi ad un piacere ancora più grande. Con la mia fantasia le vedevo con il busto premuto su un tavolo di mogano e le gambe divaricate, mentre lui le prendeva da dietro; oppure genuflesse su un inginocchiatoio, con il suo membro fra le labbra. Uscivano da quella bottega felici e con un oggetto che avrebbe per sempre rammentato loro quell'ora di piacere.
Durante le mie passeggiate con i cani passavo spesso davanti al suo laboratorio, una cascina ristrutturata in mezzo alla campagna, e non potevo fare a meno di fantasticare. Aveva un'aura di mistero e una brutta nomea che trovavo incredibilmente affascinanti. Un giorno il cancello era aperto e i suoi dobermann, sentendo altri cani avvicinarsi, ci sono corsi incontro, facendo spaventare e scappare i miei, che erano spariti con i suoi in mezzo alle sterpaglie. Nel panico, ero corsa fino alla sua porta per avvertirlo e chiedergli aiuto. Ero senza fiato dopo lo sforzo fisico e non riuscivo a spiegarmi bene, ma solo a biascicare le parole cani... cancello... scappati. Lui mi aveva invitata ad entrare e a sedermi un momento, mentre mi pregava di calmarmi e di rispiegargli tutto. Dopo qualche minuto ero riuscita finalmente a raccontargli l'accaduto, lui mi aveva tranquillizzata subito, dicendomi che potevamo andare a cercarli insieme con il suo furgone. Fortunatamente dopo non molto avevamo ritrovato le quattro bestiole in ottima salute che facevano il bagno in riva al fiume. Vedendo che non si erano sbranati a vicenda, ma anzi sembravano andare d'accordo, mi ero ulteriormente calmata, così lui aveva proposto di lasciarli giocare ancora. Per me non c'erano problemi, anche se mi sentivo in imbarazzo in sua compagnia, così ci eravamo seduti all'ombra a guardarli. Solo in quel momento ero riuscita a concentrarmi interamente su di lui. Non parlavamo e l'atmosfera era come elettrica fra noi. Mi ero coricata sui gomiti e avevo chiuso gli occhi, godendomi il momento, dopo tanto fantasticare. L'uomo del mistero era lì con me e sembrava anche lui un po' in imbarazzo. Sentivo che mi fissava e avrei tanto voluto che mi baciasse. Bastava il pensiero per farmi arrossire; lui era molto più grande di me e di certo non avevo niente in comune con le donne che frequentava di solito. Ero lì in tuta, canotta e scarpe da ginnastica; sudata e senza trucco. Stupidamente mi paragonavo alle sue clienti in tailleur e scarpe decolltè, fresche di parrucchiere e sorridevo di me stessa, non immaginando che i suoi pensieri fossero l'esatto opposto.
Dopo una mezz'ora, un musone fresco e bagnato mi aveva ridestata dai pensieri maliziosi, i cani erano tornati da noi. Lui era già in piedi e mi aveva aiutata a rialzarmi. Il contatto con la sua mano mi aveva fatta rabbrividire, sembrava turbato anche lui, ma pensavo fossero solo proiezioni della mia fantasia. Avevamo caricato i cani ed eravamo tornati a casa sua. L'avevo salutato e ringraziato, ma lui voleva che visitassi la sua cascina e così eravamo entrati nel luogo che aveva occupato così spesso la mia fantasia. Il suo studio era illuminato da molte finestre che lasciavano entrare una luce bellissima durante quel tramonto di fuoco. Un grande tavolo dominava la stanza e tutto intorno c'erano oggetti antichi di alcuni dei quali non sapevo neanche il nome. Gli chiedevo cosa fossero e a cosa servissero, ma ogni volta che mi spiegava qualcosa sospirava mormorando che ero giovane, troppo giovane. Sembrava che combattesse una battaglia interiore; forse per ottenere quel tanto desiderato bacio o anche qualcosa di più, dovevo essere io a stuzzicarlo. C'erano dei grossi anelli di ferro che sporgevano dal muro in faccia vista: - Si usavano una volta per legare le mucche - mi spiegava.
- E ora cosa ci fai? - gli avevo chiesto.
- Niente, fanno arredamento e poi questo posto era una stalla in passato -.
- Pensavo che ci legassi le tue amanti - avevo ribattuto ridendo.
Aveva riso anche lui, dicendomi che ne avevo di fantasia, ma ero riuscita a spiazzarlo.
- Addirittura amanti al plurale, pensi proprio male di me, vero? -
- No, assolutamente... - e avevo riso di nuovo.
- Comunque anche ammettendo che ci fossero, nessuna si è ancora spinta a tanto -
- Forse non hai ancora trovato quella giusta -.
- Può essere, tu ne hai una da suggerire? -
Allora mi ero avvicinata a uno di questi grossi anelli di ferro e avevo alzato le mani in segno di resa: - Eccomi - gli avevo detto imbarazzata, ma senza mai distogliere lo sguardo dal suo. Allora lui si era avvicinato, non sorrideva più. Le sue labbra erano sempre più vicine alle mie e finalmente il bacio arrivò. Era un bacio dato più per scherzo che per altro, eppure mi faceva vibrare come non mai. Allora le mie braccia erano scese attorno al suo collo e l'avevo baciato io. Mi faceva impazzire di desiderio, la mia lingua cercava la sua e ormai anche lui non faceva più nulla per resistere. Era un uomo, non un ragazzo che mi stringeva; mi sentivo desiderata e allo stesso tempo protetta, come non mi ero mai sentita con i miei coetanei.
I vestiti erano diventati inutili e ci spogliavamo in modo frenetico. Una volta nuda, mi ero rifugiata fra le sue braccia, in un rigurgito di vergogna, allora lui mi aveva guardata e nei suoi occhi avevo visto balenare una lampo di perversione:
- Ti sei offerta di farti legare, non puoi nasconderti -.
Mi vergognavo, ma non l'avrei mai ammesso. Avevo alzato di nuovo le braccia avvicinandole all'anello e lui si era allontanato a fatica per cercare una corda. Lo guardavo e lo trovavo ancora più bello senza vestiti ed eccitato. Dopo avermi legato entrambi i polsi, si era allontanato di nuovo per guardarmi. Mi sentivo ardere da quello sguardo. La mia pelle bruciava di desiderio e di vergogna. Mi diceva che ero bellissima e che le sue amanti, se mai ci fossero state, non avrebbero mai avuto quel corpo florido e giovane, quella pelle candida e morbida.
Si era avvicinato di nuovo e avevamo ripreso a baciarci. Gli divoravo le labbra di morsi, i lobi delle orecchie, il collo e lui rispondeva con altrettanta passione. La sua barba lasciava segni rossi sulla mia pelle delicata. I suoi denti lambivano i miei capezzoli. Prima mordeva e poi leniva con la lingua. Poi sempre più giù, fino al monte di venere. Mi aveva fatto aprire le gambe e aveva iniziato a stuzzicare con la lingua il punto più sensibile del mio corpo. Avrei voluto potergli prendere la testa e premerla forte, per impedirgli di andar via, ma potevo solo muovere il bacino e usare le parole per dirgli che lo desideravo lì; per dirgli che volevo sentire la sua lingua, la sua bocca, le sue dita; per confessargli che volevo essere aperta, succhiata penetrata fino a godere come mai avevo sperimentato. Mi sentivo diversa con lui, legata a quegli anelli, come se la mia essenza più intima si fosse sprigionata improvvisamente. Non avevo più paura di chiedere, ma ero completamente schiava del desiderio.
Lui non aveva nessuna intenzione di andare via, comunque. Voleva farmi godere e se continuava a leccarmi così non ci avrebbe messo molto. Le sue mani artigliavano i miei glutei e il suo viso era completamente nascosto fra le mie gambe. Sentivo la sua lingua lambirmi il clitoride, decisa e incessante, fino a farmi gridare tutto il mio godimento e poi ancora per nutrirsi fino all'ultima goccia del mio orgasmo, fino a quando il piacere era diventato quasi dolore.
Poi mi aveva slegata e mi aveva massaggiato i polsi, indolenziti dalla legatura.
Stavamo per buttarci sul vecchio divano, quando i cani avevano iniziato ad abbaiare sempre più spazientiti. Avremmo tanto voluto continuare, ma non era proprio possibile quel pomeriggio.
Mentre uscivo riluttante dal suo studio, lasciai il mio i-pod sul tavolo, così stavolta sarebbe stato lui ad avere qualcosa che gli ricordasse quelle ore di piacere e, se avesse voluto, usarlo come scusa per rivedermi.
Serendipities