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Racconto n° 5161
Autore: N. Altri racconti di N.
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La Veglia.
L'essere avvezza a dormire poco è sempre stato un mio tratto fin dalla più tenera età, quando imponevo con il mio pianto ed i miei vagiti a mia madre di cullarmi nella vana speranza che potessi riprendere il corso del sonno.
Fin da quando ho memoria ricordo d'aver vissuto il sentiero dalla più profonda delle oscurità fino alle prime iridescenze dell'alba quando inevitabilmente solo io o qualche lavoratore particolarmente mattiniero potevamo ammirarne la lenta maturazione.

Questa dev'essere una delle ragioni della mia eterna fascinazione per il regno della notte, vicinanza per elezione innata, ciò che mi avrebbe fatto riconoscere istanti del mio stesso sguardo nei versi di poeti che l'avevano così dolcemente cantato.

Era l'anno della mia maturità, passavamo ugualmente i fine settimana insieme anche se nell'ultimo periodo, subito prima dell'inizio dell'estate, presi l'abitudine di portare con me gli appunti ed i testi scolastici che sostituirono i libri che leggevo per diletto e le riviste musicali; l'insolito automatismo della mia costituzione che mi sottrae al sonno dopo la solita manciata d'ore, al massimo il numero delle dita d'una mano, mi permetteva d'avere il più tranquillo dei momenti atti allo studio che si potessero desiderare.

Tra il terzo ed il quarto rintocco scivolavo via dal letto in cui dormivano, osservandolo nella penombra generata dal chiarore dello schermo del cellulare.
Era solito giacere sul fianco e non darmi le spalle, in tal modo non mi sfuggiva mai di poterne distinguere i tratti nella loro interezza.
I suoi lineamenti marcati e la pelle sottile ed olivastra delle palpebre raddolcita dalle proprie tensioni nel lascito del riposo; è buffo come si possa credere d'intravedere un'espressione lieta, un piccolo sorriso, nel volto suo dormiente, forse volendolo rintracciare in un'immobilità che non appartiene a nessuno stato di coscienza riconoscibile.
Le persone sono molto diverse mentre dormono, anche la tenerezza si mostra nuda in quei rapiti istanti.

Il suo sonno era profondo e non si destava mai prima delle nove del mattino.
Mi ritrovava con i gomiti poggiati al tavolo della cucina o seduta sul divano od ancora in terrazzo alle prime luci dell'alba mentre gustavo una delle prime sigarette della giornata.

Accadde la notte d'un sabato in cui ci eravamo coricati insolitamente presto per le nostre abitudini, attorno alle ventitrè, lui si fosse svegliato poco prima che scendessi dal letto.

- Amore, vado a studiare in salotto, anche se resto a letto non riuscirò a dormire. -
Lui continuava imperturbabile a cingermi abbracciandomi al suo corpo, sentivo il suo respiro attraverso le labbra socchiuse accarezzarmi la nuca e la sommità del collo, abbastanza profondo da suggerire una regione sospesa tra il sonno e la veglia.
- Dai mi alzo, vado un po' di là in salotto amore. -

- Stai zitta adesso. - mi disse piano avvinando leggermente il viso al mio orecchio, mi premette il palmo della mano sulle labbra.
Le mie braccia erano bloccate dalla particolare congiuntura del suo abbraccio che passando sotto al mio busto diagonalmente terminava all'altezza dell'intersecarsi tra il gomito ed il fianco.

Per un tempo che non saprei definire se non come infinito continuò a premere la sua mano sulle mie labbra.
Ben presto ricadde nel sonno pur non mutando la sua imposizione su di me.
Si era progressivamente avvicinato ed ora nonostante la pressione della sua mano fosse stata smorzata dall'assopimento continuava a premere sulle mia labbra.

Le ultime ore della notte trascorsero scivolando lentamente su di me come una bruma che s'alzasse e s'abbassasse per tornare a lambirmi, la sensazione di un calore opprimente che mi pervadeva la schiena e la nuca, soprattutto laddove la sua mano premeva, non mi abbandonò mai; con l'estremità dell'occhio potevo vedere una parte della nuova luce dell'avvisaglie dell'alba filtrare dalle fessura della persiana.
Giacqui nel suo abbraccio fino al suo risveglio, a sole già alto.

Impossibile descrivere le mie sensazioni durante quelle lunghe ore di assoluta immobilita imposta, preda di un dolcissimo delirio e dalla sensazione di una celestiale violenza subita; il buio che mi pesava ben più d'una coltre, fino a farmi perdere totalmente il senso del tempo se non scandendolo con il lento battito del suo cuore che immaginavo di riuscire ad ascoltare.

N.

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