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Racconto n° 57
Autore: FalcoSirene Altri racconti di FalcoSirene
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Casta Diva
Le era sembrato adeguato acconsentire alla richiesta di quell'uomo dai capelli grigi. Si era domandata "...in fondo, che cos'ho da perdere?". Lui stava percorrendo, più o meno, un tratto di vita simile al suo. Non libero, legato alla stessa donna da troppi anni, oramai. E solo, evidentemente solo nell'animo.
Ma non aveva rinunciato a vivere. Non si era negato la passione. Aveva continuato a rincorrere i desideri, i corpi, il lento passeggiare di femmine sempre troppo sensuali per lui. Persone che incontrava per caso, o ben conosciute, che ad un certo punto gli facevano scoppiare in corpo e sulla pelle, strani pensieri. O assolutamente naturali e legittimi.
Notti ubriacate di luna in vecchi castelli deserti, incontri inventati lungo i percorsi più periferici delle più sporche metropolitane, panchine di parchi cittadini nel sole giallo autunnale, all'ombra del suo miglior impermeabile, quasi degno di un perfetto guardone.

Lei aveva guardato in quegli occhi, come faceva sempre. Aveva tentato di capire fin dove arrivasse, dentro a quell'uomo, il filo sottile che divide un certo sano bisogno di trasgressione, dai sempre misteriosi buchi neri, dove si annida l'animale indomito che è in ognuno di noi. E come sempre aveva avuto sensazioni contrastanti, un misto di eccitazione e paura, qualche brivido lungo i polsi e la schiena, qualche lampo di razionalità nella sua mente sempre troppo confusa.
Non prendeva mai posizioni troppo precise, lei non era così. Alla fine lasciava sempre decidere gli altri, quelli che le dimostravano un minimo, medio o grande interesse, e sapevano cogliere qualche scheggia superficiale o più intima, della sua inquietudine. Quelli che facevano leva su qualche suo bisogno primario e infantile. Un braccio di maschio sulla spalla, una voce sicura che sapeva dar ordini, occhi che trasudavano desiderio, una massa di muscoli, preferibilmente coperti di peli, ad accarezzare il suo corpo di piccola femmina in attesa di principe azzurro.

Vestirsi di nero non era stato difficile, quel colore le piaceva. Era essenziale, puro. Più puro del bianco, per lei. E poi le faceva sentire addosso un pizzico in più di quella sensualità che aveva sempre un gran bisogno di spargere in giro. Come una maledizione, un destino segnato. Sedurre, sempre. Farsi prendere e usare. Goderne. Come in un'inesorabile viaggio all'interno di quella parte di sé, forse sconosciuta. Oggetto nelle mani sudate di un uomo qualsiasi, carne mai sazia di liquidi caldi d'orgasmo, occhi ciechi di volti, e urla fortissime a buttare fuori da sé fantasmi, come piccoli sogni.

Lui le aveva chiesto unghie smaltate di rosso. Lei l'aveva trovato scontato. Il rosso ? Perché non un arancio, un azzurro, un lilla. Altri mille colori esistevano e potevano risplendere su unghie laccate di fresco. Ma aveva obbedito. Le piaceva obbedire. Molto più di agire, muoversi, parlare. Esserci, come se non fosse per sé stessa, ma per altri. Sentirsi come in uno scaffale di supermercato, merce in esposizione. O forse, come libro pieno di parole da leggere, in una libreria polverosa e un po' buia.

Ma quel rosso l'aveva incuriosita. Non era una persona scontata, lui. Se aveva scelto il rosso, esisteva un motivo. Forse presto, anche lei avrebbe saputo il perché.

La mattina prima dell'appuntamento, lui le telefonò.
"Hai smaltato le tue unghie di rosso ?"
"Sì, certo. L'ho fatto"
"Ti ho mandato un pacco...Indosserai quello che contiene. A stasera".
Aveva chiuso la comunicazione senza neppure aspettare un suo cenno, una risposta, un ciao.

Nel pomeriggio qualcuno aveva bussato. Lei aveva aperto, davanti a sé un giovanotto impacciato le porgeva l'atteso pacco. L'aveva aperto in fretta, strappando la carta, lasciandola cadere per terra. Aveva guardato dentro come per trovare oggetti morbosi, forse collari e catene, manette e cinture piene di borchie. Era rimasta ancora delusa. In mezzo ad una carta velina morbidissima, aveva intravisto un delicatissimo body di pizzo leggero e trasparente. Rosso. Completamente ed unicamente, rosso.
Anche questo non sarebbe stato difficile. Quel body le stava addosso come un velo di zucchero su un dolce prezioso. Si guardò allo specchio compiaciuta, e disse a sé stessa "...sei bellissima...".

..................

Aveva la chiave. Doveva aprire la porta, entrare ed aspettare seduta sul divanetto che avrebbe trovato davanti all'unica finestra lasciata aperta sulle luci della strada.
Buio. L'unica striscia di luce morbida arrivava da quelle imposte spalancate. Poco a poco i suoi occhi si abituarono all'oscurità della stanza, ed iniziò a distinguere qualche ombra. Seduta sul velluto del divanetto, aspettava in silenzio.
Accese una sigaretta. Si allungò mollemente incrociando le gambe, in una posa non più molto sensuale. Ma si sentiva tranquillamente sola, poteva rilassarsi, pensare. E guardarsi intorno, scrutare.

"Non hai avuto il permesso di fumare...".

Quella frase, e quella voce, la fecero sussultare. Lui era già lì, e lei non se ne era accorta. Si girò verso l'angolo più nascosto alla luce, cercando di distinguere qualcosa di più. Possibile che non avesse sentito almeno il suo respiro ? Come mai era così sicura e tranquilla ?
Non si diede risposte.
Ora, in piedi davanti a lei, lui guardava fuori, strofinando le ginocchia vestite in pantaloni di seta grezza, sulle gambe scoperte di lei, appena divaricate. Leggermente chinato, circondando lei e il divanetto, con le sue braccia.

"Alzati".
La prese per entrambi i polsi e la portò verso una delle pareti della stanza. Le mise le mani sulle spalle, e lentamente la spinse verso il basso.

"Inginocchiati qui".

Si inginocchiò. Anche lui lo fece, le prese una caviglia per volta, e liberò i suoi piedi dalle scarpe altissime. Allungò dolcemente un piede alla volta, in modo che quasi si spalmassero sulla moquette. Poi si dedicò all'abito nero che copriva la parte alta delle cosce, i fianchi, i piccoli seni ed una parte delle spalle. Lo tirò via come se fosse piuma nel vento, e liberò tutto il rosso di pizzo che ricamava la sua pelle. Lei sentì il respiro di lui, in quel momento. Un sospiro accennato, ma l'avvertì. E lui continuò così, mentre percorreva con la punta delle dita, la linea delle gambe e quella delle braccia, fino a toccare i capelli. Ma nient'altro. Ne viso, ne collo, ne seni. Solo la linea più esterna di tutto quel piccolo corpo, come per tracciare una sagoma, disegnare un'ombra, definire un confine.

Si alzò. E quando fu in piedi, si abbassò di nuovo, per poi rialzarsi, avvicinandosi con il ventre, al viso di lei. Si allontanò solo un attimo, per tornare con in braccio alcuni cuscini. Ne mise uno sotto di lei, e ancora si alzò. Non bastava un solo cuscino perché la bocca di lei si trovasse all'altezza che desiderava. Ne mise un altro, e finalmente fu soddisfatto del risultato ottenuto.

"Da questo momento in poi, non puoi più scegliere... ne decidere. Sei sempre sicura di volerlo fare ?...altrimenti..."

Lei non rispose, lo guardò soltanto, dal basso verso l'alto, e restò ferma a fissarlo. Poi abbassò il capo. Aveva accettato l'invito ed ora che stavano iniziando i primi brividi di sottile attesa e paura, non voleva certo andar via.
Poco dopo ebbe il piacere di sentirsi legare i polsi dietro la schiena con una sciarpa di seta, e pensò che quella notte avrebbe probabilmente vissuto qualcuno dei suoi sogni proibiti.

Lo osservò allontanarsi nell'angolo buio, e tornare con qualcosa nelle mani. Era girato di spalle e inginocchiato un po' distante da lei. Nel buio accese una luce di torcia. Sistemata sul pavimento, una prima torcia, e poi molte altre, tutte vicine tra loro, una dietro l'altra, a disegnare una grande mezzaluna, che percorreva quasi tutta la stanza. Tanti piccoli fuochi lungo una semi curva, davanti a lei, come un altare, un palco, un nido. L'interno di una conchiglia spalancata, e immaginaria. Capì che lì, in quello spazio ben delineato e preciso, sarebbe accaduta ogni cosa.

Lui sparì dalla sua vista, e subito dopo iniziò a suonare nel buio, la prima aria di un'opera che lei conosceva benissimo, la Norma di Bellini.
La prima aria, Casta Diva. Stava salendo piano, il lamento profano della voce femminile, e lentamente riempiva l'apparente vuoto della stanza.

"...Casta Diva, che inargenti queste sacre antiche piante, a noi volgi il bel sembiante senza nube e senza vel...Tempra, o Diva, tempra tu de' cori ardenti, tempra ancor lo zelo audace..."

Amava quella musica, e ascoltarla in quel momento, lì, in quel semi buio, inginocchiata ai piedi dei mille piccoli fuochi, con i polsi legati e la gola chiusa, le fece nascere dentro il desiderio di accompagnare con movimenti del corpo quella struggente melodia. Chiuse gli occhi e lentamente iniziò a muovere il capo, seguendo il ritmo lento che stava entrando dentro di lei.
Dovette riaprirli di colpo. Lui era tornato e le stava stringendo il collo, con entrambe le mani. Stringeva, e le infilava i pollici ai bordi della bocca. L'apriva piano e poi con forza.

"Tienila aperta...così".

In piedi, completamente vestito, aveva lasciato la presa, e con una mano ora stava accarezzando la stoffa dei suoi pantaloni, proprio in mezzo, lì, sopra il suo sesso. E sotto, più in basso, era sceso ad accarezzare i testicoli. Saliva e scendeva, girava in tondo. Il pantalone adesso tradiva la sua erezione. E lui l'impugnava, tirando la stoffa, stringendo con forza, come per fare uscire fuori il suo membro duro, senza spogliarsi. Le stava addosso, vicino al viso, alla bocca. Si strofinava su di lei, continuando a stringerlo nella mano.
Lei iniziava ad immaginarne l'odore, e la saliva che stava colando dalle sue labbra, le parlava di quella voglia incontrollabile che conosceva bene. Che aveva già in testa, negli occhi. L'avrebbe voluto in bocca, subito. Tutto, dentro di lei. Fino in fondo alla gola. Ed ingoiare ogni più piccola goccia della sua essenza, fino a soffocare.

Un po' di sudore che le scese giù dalla fronte, rivelò la sua eccitazione.
Lui si allontanò leggermente, e finalmente aprì la lampo dei pantaloni. Non portava biancheria intima, e il suo pene si liberò nell'aria, lucido e teso, mostrò alcune piccole vene rigonfie che lo rendevano ancora più eccitante, diritto e fiero, praticamente perfetto. Anzi, bellissimo. Lei continuava a fissare quel pene davanti a sé, e sentiva salire alla testa tutto il suo sangue. E il sudore dei peli. E il suo umore che la stava allagando, e scendeva spudorato lungo le cosce, davanti e dietro. Ma era l'odore il vero colpevole. L'odore di quel pene indurito, che aveva a pochi centimetri ormai dalla sua lingua, le entrava nelle narici, tagliente, invadente, sfacciato.
E animale.

"Questa è la mia arma migliore...te la presento...vuoi essere il suo bersaglio ?"
Lo teneva tra le due mani, puntandolo contro di lei, forse mirando alla gola, forse al cuore. Lei lo voleva. Nient'altro in quel momento.
Solo quel cazzo. Nient'altro.
Lui di colpo prese a masturbarsi con movimenti veloci, ansimando, liberando rumori e gesta come se lei non esistesse, come se si fosse trovato di fronte ad uno specchio, e stesse ammirando se stesso. Il suo sesso. Carne viva bollente, sull'orlo di un baratro di piacere.

Lei spalancò ancora di più la bocca. Se non poteva avere quella carne eccitata nella sua gola, che almeno ne potesse accogliere il succo. E gustarlo, nutrirsi.
Non accadde. Dietro l'uomo eccitato, davanti alle torce, stava strisciando lentamente una figura femminile. Piegata sulle ginocchia e appoggiata sulle mani, mostrava le natiche libere. Inarcava leggermente la schiena per essere presa. Lui si girò. Le fu dietro e la prese. Sprofondava dentro di lei, sembrava oltrepassarla. La donna urlava. Lui le chiuse la bocca, le ordinò di tacere.
Lei prese a strofinarsi come indemoniata, e dopo le urla, i lamenti. Stava salendo la spirale del suo piacere, mentre lui, come se stesse montando un'animale, con un morso le ferì la schiena. In quel momento il suo sesso si liberò di tutto lo sperma, e con l'ultima spinta sodomita raggiunse il fondo di quella galleria proibita.
Alzò la testa verso il soffitto, e per un attimo sembrò perdersi nei suoi stessi occhi sbarrati. Ma solo per un attimo.
Di colpo lo vide arrivare verso di lei, avvicinarsi esponendo il suo pene svuotato e bagnato.
E puntando verso la sua bocca, ancora aperta, le disse:
"Puliscimi".

Come un pugno nello stomaco, quell'unica parola le girava in testa, mentre leccava il pene imbrattato di umori e odori dell'altra. Ma sentiva la soddisfazione di lui aumentare, nel vederla così ubbidiente, eseguire il suo ordine. Pensò di essere stata brava, quando lui le accarezzò le spalle, e fece scendere le spalline del body. E continuò, liberandole i seni, e attorcigliandole il rosso del pizzo, intorno alla vita.
"Così...resta così..."

Da dietro, la donna che era stata posseduta, si stava avvicinando. Lui la sentì, la vide. Si girò, la spinse per terra. E spalmò tutta la lingua tra le sue gambe. La penetrò con le sue dita ossute nel taglio rosa, e ancora nella fessura proibita. Lei urlò quasi subito, e scendendo dal suo orgasmo gli lasciò sulle spalle segni evidenti delle sue unghie.

I polsi legati le impedivano ormai quasi di pensare. Le mani dietro la schiena, immobili. Impazziva per non potere almeno infilare anche un solo dito dentro di sé, o accarezzarsi il pube, le cosce, o il sedere, ormai completamente bagnato di sudore.
Quell'odore di sesso le spaccava la testa.

L'altra donna, soddisfatta, si alzò e sparì dalla sua vista, forse in un'altra stanza.
Erano soli adesso. Forse sarebbe arrivato il godimento anche per lei.

"Ti aspettavi un orgasmo magnifico questa notte ?"
Non riusciva a rispondere.
"O forse... ad un certo punto, avevi voglia di lei ?...Ma no... sicuramente ti sarebbe bastato farti fottere da me... non sei di gusti difficili tu..."

Forse voleva piangere.
"Ora ti voglio coperta di rosso... posso disegnare il mio rosso su di te?"

Credette di sentirsi scoppiare il cuore nel petto, quando iniziarono a cadere lente su di lei, piccole gocce di sangue, rosso scurissimo. Con la lama di un coltello affilato, lui si stava procurando leggere ferite sul petto, e vicinissima, lei poteva sentirne l'odore.
Il pizzo e le gocce, mischiati assieme sulla sua pelle.
L'odore di sperma e di sangue.
Chiuse gli occhi e immaginò di rivedere la scena di un film.
Lei immersa in mezzo a milioni di petali di rose rosse.
Casta Diva che ricominciava a suonare.
Le torce che bruciavano lente.
Forse a quel punto qualcuno accese la luce, o forse era giorno oramai.


Riaprendo gli occhi, davanti a sé, nelle sue mani, un calice colmo di vino. Rosso. I gomiti delle sue braccia, appoggiati su un tavolino di un'enoteca del centro. Gli occhi di lui che la fissavano allegri, da appena sopra, un altrettanto colmo calice di vino. Rosso.

"Alla nostra...piccola mia...", le disse lui, alzando il bicchiere verso il suo.
"Alla nostra...", rispose lei.
"Sei stata magnifica...".

Lei cercò in fretta, sotto il tavolo, la carne rosa tra le sue cosce. Era ancora bagnata, e gonfia. Non aveva goduto, allora.

Si tirò su dalla sedia, avvicinandosi a lui, seduto dall'altra parte del tavolo. Piena di furia gli aprì la camicia che aveva addosso, facendo saltare intorno i bottoni. Lui non si scompose, lasciò fare. E anzi, l'aiutò a liberarlo.
Si scoprì da solo, completamente. Tanto che lei poté vedere, tracciate sul suo petto, una fila di piccole ferite, come segni scritti, ancora rossi di sangue.
E avvicinandosi meglio, poté leggere due parole, che per tutto il tempo aveva terribilmente desiderato sentirsi dire da lui: Sono Tuo.

I loro bicchieri s'incontrarono ancora, per tutto il tempo che poteva servire, seduti a quel tavolino di un'enoteca del centro.
Fino all'ultimo brindisi.
Quello in cui, sbattendo violentemente tra loro, i due calici colmi, si frantumarono in mille piccoli pezzi di vetro.
Caddero come una pioggia, ai loro piedi, sotto il tavolo.
E mischiandosi al vino, divennero rossi di sangue.
Anche loro.

FalcoSirene

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