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Racconto n° 786
Autore: Faber Altri racconti di Faber
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La posa
Vive sull'isola da tempo.
Ha cercato anni fa un rifugio, in mezzo a capperi ed olivi.
Una fattoria isolata, tre casolari.
In uno vive con la compagna di una vita.
Nell'altro ha ricavato stanze per i pochi ospiti che riceve, ha scelto di essere appartato.
Nel terzo, sotto la collina corta, vicino al pozzo da tempo disseccato lavora. È uno studio ampio illuminato a sud verso gli scogli e il mare sottostante. Lo studio è soppalcato, era vecchio fienile o essiccatoio di raccolti in altra vita.
Sul soppalco un divano e tele alle pareti. Per terra tele piccole e alcune, almeno un paio, enormi, girate col dipinto (questo lo immaginiamo perché il dipinto non si vede forse non c'è nemmeno alcun dipinto sul lato oscurato e sono bianche e noi comunque non le giriamo adesso per sapere), girate col dipinto verso il muro.
La vita in masseria ha ritmi lenti. Dipinge poco ormai, da anni.
Il pittore ha capelli rasi sul capo, grigi e pungenti. Mani nodose e grandi e dita un po' contorte.
Le dita sono sempre sporche dei colori accumulati negli strati della pelle callosa e secca, quando a volte abbandona i pennelli e sono le dita nodose a squarciare colori direttamente sulla tela.
La bocca spesso è sporca dei colori, quando, dopo la pittura, il pittore che si strappa a morsi le unghie, le morde e le mangia fino al sangue se l'opera non corre sciolta sulla tela o l'idea ritarda troppo, dopo la pittura, dicevo, come spesso succede dimentica di passarsi sulla bocca lo straccio di cotone e di pulirsi.
Il pittore indossa lo sguardo di chi ha molto combattuto.
Quali fossero poi le sue battaglie a noi non è dato saperlo. Possiamo solo immaginarlo se incrociamo quello sguardo. Ma questa è solo la fotografia.
Vi racconto in due righe di quella masseria perché già tanti anni fa io ci sono stato.
Il pittore era più giovane ma tutti lo chiamavano Maestro già in quegli anni.

Ma, scusate, ora lo realizzo.
Non mi sono ancora introdotto a voi. Mi scuso.
Sono Sante Abbate, forse avrete ancora modo di ritrovarmi sulla vostra strada, ancora, altre volte, se ne avrete la pazienza.
Quello che, sul lavoro, per distorsione di dialetto o per affetto immeritato di collega chiamavano talvolta il Santo Abate... e santo poi non era.
Che avrà altre storie forse per voi che ascoltate.
Ma queste un'altra volta.
Ero giovane e invadente allora, ospite ammirato in quelle stanze riservate.
Ero in vacanza e un caso fortunato mi aveva aperto le porte e garantito una cena a quel tavolo, zuppa di fave e torta di patate, se ricordo bene i sapori e non solo i colori.
Poche parole a cena, il Maestro parla poco e, quando parla, poco si capisce dove miri la parola..
E poi le tele.
Quelle che non avevo visto in quella mostra e in quel museo nella città in cui vivevo allora.
Nudi di donna soprattutto, nudi lacerati.
La forza del Maestro è proprio quella.
Sembra che tagli i corpi col coltello. E poi li incolli e spalmi nei colori.
A volte i quadri sembrano schizzi al carboncino. A volte affreschi giganti di un pube e un sesso spalancato, la linea di un fianco e poi un braccio, un collo, un seno.
E il viso.
Poche volte il viso.
Ma i visi che a volte lui dipinge fanno inquietare e innamorare.
Sembrano visi colti nel dolore o nell'orgasmo. Come se la modella, spesso la stessa, a volte anche la moglie nei quadri giovanili (lei ti accompagna e te li fa vedere, senza più imbarazzo alcuno per quel seno allora assai più alto e la coscia a volte larga nella posa), fosse rivoltata e negli occhi, nel taglio del sorriso o nella smorfia strana fosse dipinta un'anima pagana.
Il Maestro non ha Dio né Fede, eppure dipinge, delle donne sulle tele, l'anima e l'emozione, come divinità pagane, sacrificate su altari di riti sconosciuti.
All'epoca il Maestro dipingeva. Molto.
Ma qui finisce quello che so direttamente da quel tempo. Il resto è storia che in parte mi fu raccontata.
Anni dopo, solo qualche anno fa.

Anna e Martino

Il piccolo traghetto, solo passeggeri e qualche moto, è arrivato nel mattino, subito dopo e a fianco del caicco del pescatore anziano ed ha attraccato.
Scende con la valigia e una sacca (piccole anzi, due, due borsoni in realtà, di cuoio marocchino) la coppia, e chiede indicazioni.
"La casa del Maestro? E' la sulla collina, quella che chiamiamo la collina "corta" perché non è nemmeno una collina, in fondo, un dislivello solo, scagliato dalla forza del vulcano in epoca passata, mosso a picco sugli scogli di salina. Vi porto con l'Ape se volete, ma siete certi che il Maestro vi attenda? Non ama avere visite, con gli intrusi è anche scortese.
La coppia divertita sale sull'Ape. Non temono un'accoglienza di quel tono.
Lui, Martino, era stato allievo del Maestro quando ancora insegnava, spiegava di pittura e cresceva apprendisti di bottega in quell'Accademia in terraferma. Lei era allora già la compagna dell'apprendista, ora non più tale.
Oggi anche lui espone e lei l'ha sposato nel maggio di due anni prima.
Sono attesi, è la visita curiosa al Maestro dell'allievo liberato, curiosità di nuove tele, nuove emozioni pennellate o schizzate con spatola e magari con le dita.
L'Ape arranca la salita in un fondale di terra senza tempo.
Alla casa li accoglie la figura di una donna bella, vestita da ragazza, jeans e camicia a scacchi colorati e lo sguardo curioso con cui li ha seguiti lungo la salita, attirata dal rumore forte, ritmato e affaticato della piccola vettura.
Li accoglie, è la moglie del Maestro.
Offre aiuto alla donna, Anna si chiama, per il suo borsone. Le mani dopo il saluto - sono Agata, la moglie del Maestro - afferrano decise quel borsone, non ammettono il rifiuto, e senza apparente sforzo, la donna, Agata, dell'età apparente indefinita, con forza inaspettata, introducono bagaglio e visitatori nel casale.
La porta era già spalancata, sull'isola non occorre ancora serrare porte agli intrusi.
Anna e Martino seguono la donna, che li precede e fa la strada, un sorriso tra loro solo, rinviano le parole e l'impressione avuta in quell'incontro, il primo con la donna dell'isola e del casale.
Martino vorrebbe dire subito a Anna di quegli occhi... ma hai visto gli occhi? il corpo è davvero ancora bello, io le do almeno cinquant'anni ma si legge una bellezza non stanca e mai domata e la forza non rotta anche nei movimenti.. non trovi? .dipingerei quel corpo... e dopo gli occhi! Sembrano piatti e grigi ma se l'hai notato, all'incrocio dello sguardo nel saluto, è come avessero dentro un pozzo prosciugato.. sono inquietanti,.. sembrano quasi spenti, ma hanno lampi e acqua ancora in fondo.
Anna ha notato meno, forse, dopo tra l'altro, presi da mille novità e dalla leggera eccitazione della vista da lungo progettata, dimenticheranno anche di parlare di quelle loro prime impressioni.
Anna con occhio di donna sa per certo però che quella donna ha pianto. Non ora, non prima.
Ha pianto certamente nel passato. E che quel colore di pozzo prosciugato ricorda di quei giorni.

Il Maestro

L'incontro col Maestro avviene a sera tarda.
Anna e Martino hanno trovato ospitalità nel secondo casale.
Avete tempo per riposare un po'.. sistemarvi, qui si cena tardi, mio marito, il Maestro non perde mai un tramonto, è il suo teatro e la sua televisione il mare che vedete. Sentirete una campanella, vi avviserò dell'ora, adesso siete stanchi riposate..
Nelle parole della donna, della moglie, parla tra l'altro con una voce dolce, senza accelerare mai di ritmo, si legge tanto se si ascolta un poco.
Se Anna e Martino avessero ascoltato avrebbero saputo di un amore ancora vivo e anche di qualche rimpianto, chiusi nelle parole, come se la voce e le parole stesse avessero un'eco silenziosa.
Anna e Martino fanno l'amore al pomeriggio dopo che la porta si è chiusa alle spalle della donna.
La campana, si sente anche se il suono è leggero, li chiama dopo qualche ora.
Si sono addormentati. I bagagli ancora da disfare.
Nel casale principale, dopo l'ingresso si aprono due porte, una piccola, forse era un deposito vicino all'ingresso schiude la cucina.
All'altro lato, sotto un tetto di trave e legno la stanza grande.
Un tavolo sproporzionato a quella compagnia, probabilmente sempre stato sproporzionato in quella casa e seduto al capo del tavolo il Maestro.
Martino ha ansia di saluto, presenta Anna, forse attende anche un abbraccio.
Ma il Maestro è scostante adesso, più di allora.
E' invecchiato, il volto dipinto di rughe poche ma profonde, le mani ancora più ossute e le dita storte e sporche di colori penetrati sotto le unghie e fondi nella pelle, i capelli grigi, quasi bianchi ormai, tutti però sul capo, corti come si usava un tempo, da soldato.
Il Maestro saluta a mala pena e parla poco.
La visita è gradita, altrimenti visita non ci sarebbe stata affatto, ma non ha parole di ricordo o nostalgia dei tempi in cui era Maestro solo perché insegnava e Martino l'allievo che studiava.
Agata cammina tra cucina e tavola, ha passo leggero, gli stessi jeans e la camicia a scacchi del pomeriggio.
Si muove col passo di chi conosce ogni mattonella e ogni svolta.
Come quando si torna a casa tutte le sere sulla stessa strada e non ci si accorge nemmeno più di quella curva e dell'incrocio.
Agata ha gentilezze silenziose per il Maestro e gli ospiti e parla anche lei poco.
Martino cerca le parole, rattizza un poco il fuoco coi ricordi.
Agata e il Maestro sorridono.
Anna nota allora che hanno lo stesso sorriso Agata e il Maestro. E gli stessi occhi.
Gli occhi del Maestro si posano assai spesso su Anna nel corso della breve cena. E hanno luce nuova al riflesso di bottiglia e di bicchiere sotto la luce accesa, in quello sguardo.
Anna dapprima non li nota, gli sguardi e quei riflessi, poi se ne imbarazza.
La cena è poca o, meglio, semplice direi.

Il Rito

Il Maestro ha regole e riti maniacali ormai da anni.
E Agata li rispetta anche in quelle occasioni, rare, speciali, come quella, con gli ospiti dal continente.
Mangia praticamente solo verdure e cereali da tempo imprecisato. Sempre gli stessi cibi, con ritmo regolare di forchetta e cucchiaio.
Come se fosse sempre lo stesso pasto da tempo, solo differito e ripetuto e poi interrotto e ripreso con lo stesso ritmo a battere nel piatto.
Nel corso della visita Anna e Martino di riti ne scopriranno altri. Ancora.
Il rito del ritiro.
Il Maestro lascia sempre la tavola per primo, a pasto non ancora terminato.
Quello dei suoi colori. Con pazienza rinascimentale e voglia di bottega, il Maestro da sempre prepara da solo i suoi colori.
Per i quadri e per le porcellane dei suoi piatti così strani appesi ai muri dopo la cottura o per i busti di donna plasmati e colorati nelle sue sculture.
Mischia pigmenti arrivati da posti anche lontani, ha sacchetti di polveri, manipola terre e chimica nei boccali, afferra una manciata di pigmento giallo, lo lascia in un bicchiere, versa olii e solventi, poi con le mani ancora gialle, dal sacchetto sporco di rosso sul bordo ripiegato, prende e poi scarica in un altro recipiente un rosso nuovo... nato per caso, dall'incontro fortuito delle mani gialle di prima e del pigmento rosso basilare.
Prepara i suoi colori in questo modo, come nelle botteghe dei Maestri più antichi, come da sempre anche monta le sue tele nude sui telai, e le tende con i cunei triangolari a dare resistenza al telo sotto il pennello, la spatola o le dita. E le ritende anche durante la fatica se il telo perde resistenza alla pressione e non risponde al battito della pittura.
Il rito della notte poi prevede Agata sulle scale.
Il Maestro da tempo ha traslocato per la notte in un locale nel sottotetto.
Non si capisce il perchè, è il più caldo in estate e il più freddo all'inverno quel locale.
Dorme lì e Agata nella stanza vecchia.
Il letto di Agata, quello rimasto dei due in quel locale al piano sotto, sembra perso quasi, affogato, in quella stanza così grande per una donna sola e così piccola al cospetto.
Tutte le sere Agata prepara la tisana del Maestro.
Il rito della notte.
E' cosa di erbe amare, nere alla bollitura, sgradevoli al palato.
Il Maestro cura così il suo sonno e il suo sogno di fermare il tempo. La tisana è il suo scudo.
Protegge a suo dire il corpo e preserva, con l'eco di saggezza vecchia di antiche streghe isolane, il pensiero dall'idea di invecchiare.
E Agata rispetta anche quel rito.
Anna stessa, nel suo soggiorno in quella casa, aiuterà anche Agata a volte, dopo, piccola solidarietà e aiuto tra donne, ad adempiere a quel rito.. la scala ripida e la tazza nera in mano fino a quella stanza, dopo la bollitura e il filtro.
Ma questo viene dopo. Dopo le prime pose. Al secondo ritorno di Anna in quella casa. Sola. Senza Martino.
Le pose allora.

La Prima Posa

La prima posa è quasi un gioco.
Il mattino dopo Martino parla ad Anna dell'entusiasmo e dell'ammirazione per il lavoro del vecchio professore e l'idea nasce così a Martino, quasi per caso.
Martino ha il mestiere del Maestro a sufficienza tra le mani per aver capito e interpretato bene anche due o tre sguardi volti alla sua donna dal pittore.
Martino però dopo il risveglio parla con Anna solo delle scoperte e della bella occasione della gita all'isola e della luce che lì il pittore ha trovato e rovesciato nelle tele e non di quegli sguardi.
Martino che si era svegliato quel mattino, nell'aria di primavera e mare entrata dalla finestra aperta dalla sera.
Anna dorme ancora, Martino la bacia sul collo, la sfiora.
La guarda nuda appena tolto via il lenzuolo.
La guarda, è strano con l'occhio di chi usa i pennelli. Ed è la prima volta che la vede così.
Strano.
Sarà l'atmosfera della casa.
La visita al Maestro, forse, ma Martino guarda Anna nuda con nuova commozione.
La gamba sinistra ripiegata alta, verso il petto, Anna dorme quasi sul fianco, l'altra stesa e distesa.
L'ombra all'incrocio delle gambe, scura di pelo malcelato, la curva delle natiche, tagliate come nello spacco di un frutto estivo.
Il viso di Anna non si vede, è nascosto da un braccio ripiegato anch'esso e in parte nascosto, come il profilo del viso, dai capelli mossi dal sonno e dalla notte.
Martino ha nuova commozione per quel corpo che conosce. Lo percorre con lo sguardo.
Poi comincia a baciarla e carezzarla, prima solo a sfiorare dolcemente.
Poi, ai primi ancora insonnoliti movimenti di lei, al sollevar di reni... allo scostarsi del viso e del braccio sul cuscino, infila la mano tra le gambe di Anna e comincia a carezzare la testa di quel gatto, nascosto sotto il ventre.
Alla carezza il muso di gatto si scioglie, un dito fruga.
Lingua di gatto dolce, naso bagnato a inumidire il dito e la mano.
Martino poco dopo le è sulle spalle e sulla schiena e sulle reni.
Anna si sveglia in quel modo, liquido lento e caldo, in quel mattino.
Dopo la colazione, la visita allo studio, quello di cui sapete, quello con le tele grandi da vedere e quelle che magari solo potete immaginare, girate contro i muri.
Nello studio due tavoli, pennelli, colori, sacchetti di pigmenti, bottiglie sporche piene di solventi.
Due cavalletti affiancati al centro della stanza, uno molto grande, l'altro grande anch'esso ma nella vicinanza col gigante sembra quasi piccolino.
Il Maestro li raggiunge dopo che Agata è stata cicerone nella stanza.
Agata mostra i quadri con lei stessa riflessa tante volte sulle tele, e, con occhi di pozzo asciutto, un po' abbassati, anche quelli delle modelle che sono successe a lei, in quello studio.
Il Maestro non dipinge più Agata da tanto.
Anni.
Molti.
Ha avuto altre modelle, Agata non sa perchè abbia smesso di ritrarre lei, ricorda solo circa il quando, ma non è stata decisione di un istante, senza parole e senza né preavviso né motivo, soltanto, un giorno lui si è chiuso nello studio con un'altra e i suoi colori.
Ha dipinto per anni ancora, ora dipinge poco, sempre più raramente.
La proposta di Martino arriva a ciel sereno.
Anna saresti la modella?
Rivolge la proposta ad Anna e non guarda il Maestro.
La proposta è maturata nelle testa proprio quel mattino. Anna dipinta dal Maestro, lui non ci riuscirebbe forse anche per troppo amore. Forse per pudore.
Anna si schernisce senza parole. Agata incoraggia e il Maestro ha solo poche parole.
Cominciamo domani.
Se vuoi.
Ma ci vorrà pazienza.
Ce l'hai?
Ce l'avete?
Agata ha la pazienza nello sguardo quando si volta e svolta alla porta per preparare il pranzo che li attende.

Pose

Il mattino seguente il Maestro è nello studio già all'alba.
Pantaloni di tela sporchi di colore vecchio e secco, una camicia sbottonata al collo, e rimesta polveri e colori col nervosismo dell'attesa.
Prepara con i cucchiai e le mani la sua tavolozza nuova. Nascono i blu più fondi dell'oceano e i rossi incendiati e i gialli tuorlo d'uovo e tutti gli altri. Nascono e si chiudono nei barattoli, i bicchieri, i recipienti di quell'alchimista grigio.
Sposta nervoso i cavalletti.. prepara tele nuove, le sceglie e le soppesa, alcune poi le scarta, taglia fogli di carta da spolvero in quadrati grandi e rettangoli, li ammonticchia a terra, ne inchioda con spilli e con puntine dure alcuni su tavole di legno.
Appoggia in giro intorno al cavalletto più piccolo il suo arsenale per la nuova battaglia della sua vecchia guerra.
Sale sul soppalco, recupera un panchetto rettangolare con la copertura di raso rosso molto lisa e lo sistema a fronte del cavalletto appena smosso.
Anna è puntuale.
Maschera un po' di agitazione con lo sguardo da bambina curiosa.
Il Maestro ha parole nuove, molte di più di quelle che spende lungo i pasti.
Sarà cosa lunga, dura, faticosa.
Ti scaverò nel corpo e nel viso.
Se vuoi possiamo rinunciare, ma non chiedermi di smettere dopo, diventerei antipatico. Cattivo.
Faremo delle pause, quando io sono stanco.
Puoi fumare solo allora.
Mi fermo quando sono stanco, magari dopo giorni ti dirò che basta.. non se ne fa più niente e tu non vedrai mai quello che ho fatto.
Solo alla fine, se io ne sarò soddisfatto ti farò vedere.
Non accetterò che tu ti stanchi se io non sarò per primo stanco.
E adesso, siamo soli, accetti?
Anna, quella che ha sposato Martino, studente senza futuro, sfidando il mondo intero e il piccolo paese e i genitori e le chiacchiere e il futuro, accetta.
Il Maestro le chiede di spostare lo sgabello di raso, di prenderne il posto, in piedi, le mani e le braccia scese lungo i fianchi.
Prende una tavola con un foglio di quelli preparati, la monta sul treppiedi, afferra una barra di carboncino e graffia veloce il foglio.
Il primo.
Poi il secondo, il terzo,.. e altri.
Il pittore a volte si ferma tra uno schizzo e l'altro e pensa con le dita in bocca a cercare ispirazione nell'ultimo frammento di unghia che gli resta da troncare e da strappare via coi denti.
Anna di lui però vede solo le braccia uscire a tratti ai lati dello schermo quadrato del pannello montato al cavalletto e per tempo non calcolato ha come compagnia solo il rumore secco del carbone duro sulla carta secca.
Alla fine della giornata Anna è stanca e quasi un po' delusa.
Il pittore ha bruciato fogli su fogli, ha parlato praticamente mai, solo consigli, richieste di spostare un braccio o girare a destra il busto, il volto accigliato e insoddisfatto.

Cena

La cena vede il pittore loquace, loquace forse è troppo, ma parla. E tanto per la sua consuetudine.
Parla dello scavare l'anima, del rubarla, del cogliere nello spasmo fermo della posa il dolore più interno, del viso che a volte non dipinge. Della frenesia di trovare poche tracce che siano più dettaglio di una fotografia.
Il viso no, se conoscete l'opera sapete che dopo Agata le sue donne sulle tele hanno sono corpi, movimento, sesso ma mai un viso definito. A volte qualche taglio secco di colore che però non si fa mai viso in senso pieno.
Martino ascolta.
Come quand'era allievo e ricopiava spesso.
Anna è stanca e mangia poco.
Agata ha occhi ancora più secchi e guarda basso.
La sera Anna non ha voglia che di dormire. E' anche indolenzita dalla rigidità forzata durata ore.
Si ritira presto, per Martino ha solo un bacio e dopo attende, guardando i travi del soffitto, un po' svuotata, il sonno. Agata prepara la tisana serale del Maestro e sale le scale come ogni sera.
Il mattino seguente Anna arriva puntuale e aspetterà circa mezz'ora l'arrivo del pittore.
Le chiede di salire sul soppalco, spogliarsi e scendere ancora, con la vestaglia lunga che là troverà appesa al muro, addosso.
Anna con la vestaglia prende posto davanti al cavalletto, lui le fa un gesto o forse dice anche una parola.
Anna apre la vestaglia che le scivola ai piedi, porta d'istinto una mano sul seno di traverso a coprirlo col braccio.
Strano, ma succede, la donna copre il seno e non il sesso.
Anna scosta il braccio, riprendi la posa di ieri.
Le braccia lunghe lungo il corpo, non appoggiate appena scostate.
Stai ferma e guarda avanti.
Anna dissimula ogni imbarazzo di cui prova, peraltro, anche vergogna.
Scopre il seno, allarga un po' le braccia e alza lo sguardo.
Il Maestro graffia con furia tracce dure sulla carta secca con il carbone.
Lei vede gli occhi del Maestro correre e alternarsi dal suo corpo al foglio.
Sente solo il rumore stridente del carbone sfregato con violenza.
Quando il Maestro la guarda per rapire una curva o un'ombra Anna non sa dove lui la stia guardando.
Vede gli occhi fissarla, grigi.
Anna si bagna.
Ma non si muove.
Non si copre, abbassa solo lievemente lo sguardo.
Alza gli occhi! Ti ho detto guarda avanti e alto, spingi le spalle in alto, sporgi il seno nel farlo!
Anna spera solo che lui non tratteggi le gambe un po' scostate adesso.
Che non colga con lo sguardo che fruga, l'acqua che sente le bagnano là in alto, dove diventano taglio.
La sera, dopo cena, Martino cerca Anna nel letto.
Anna si nega, dice di essere troppo stanca, si gira e, girata sul fianco, fissa un punto sul muro di fronte per mezz'ora.

Seconda posa

Il giorno dopo Anna è sul panchetto di raso.
Seduta a fronte del cavalletto.
Posa le mani dietro, al bordo del panchetto.
Nella posa la schiena si arcua un poco, le gambe a terra cercano l'appiglio divaricandosi, il seno si alza sul petto rovesciato.
Anna è aperta allo sguardo del Maestro.
Lui le ha comandato quella posizione faticosa, l'ha corretta - spostati ancora un poco.. le mani quasi dietro la schiena.- ed è in quel movimento ad arretrare spalle e braccia che Anna scosta le gambe e si apre allo sguardo del pittore. Anna luccica tra le gambe in quella posa.
Ha la testa rovesciata in dietro e non vede lui che la guarda.
Non sa se e quando e dove ficchi gli occhi per cogliere le linee e le ombre da disegnare.
Sente i capezzoli stringersi e diventare secchi in quel pensiero di sguardi che non coglie.
Solo il rumore del carboncino che urla sulla carta.
E il respiro un po' affannato del maestro che traccia linee e sfuma con rabbia e gesto concitato.
E il suo cuore che le sembra battito di tamburo.

Due donne

Le pose continuano ancora per due giorni.
Poi Anna riaccompagna Martino, deve tornare al lavoro, col traghetto sulla terraferma.
Anna ritornerà da sola per le pose, all'isola piccola il giorno stesso.
Se vuoi torno a Padova con te, il Maestro tanto ha fatto solo schizzi... e neanche quelli giusti, li ha buttati quasi tutti.
Anna e Martino che non fanno l'amore da tre giorni ormai si salutano poi al molo.
Hanno parlato poco durante tutto il viaggio e solo di cose di scarsa importanza che nel vento poi si sono anche perse e qui non trovano né eco né ricordo.
Anna riprende il viaggio sullo stesso piccolo battello al ritorno poco dopo.
Martino è già sull'auto e inizia il viaggio.
Sull'isola Anna trova Agata in cucina.
Il pittore dorme nel tardo pomeriggio.
Anna aiuta Agata a pulire verdure ed avviare la cena.
Incrociano i gesti con poche parole, come se fossero cuoche assieme da sempre in quella cucina.
Agata che aveva occhi freddi velati solo di curiosità piccola di gatta, nel prendere una pentola dal lavandino posa la mano per caso sulla mano di Anna.
Al tocco le donne si guardano d'istinto, girando il viso verso l'altra, per la prima volta.
Giurerei che al freddo degli occhi di Agata si sia sostituito rapido un sorriso appena un po' abbozzato, riflesso in quello offerto dal viso di Anna.
Giurerei, non c'ero.
Ma dopo quel piccolo contatto, la donna giovane e la donna con gli occhi di pozzo, sedute al tavolo di cucina, si parlano.
Preparano la cena di verdure.
Parlano.
Raccontano piccole cose, alcune condivise adesso.
Agata ha solo un attimo di mistero quando dice ad Anna, non farti mai però rubare il viso.
Dopo la cena quella sera è Anna che prepara e porta sulle scale la tisana della notte al Maestro.
Agata poi rientra dallo spettacolo serale del mare che replica ogni sera prima di dormire e saluta Anna con un bacio prima di dormire.

Pose e ancora pose

Il lavoro delle pose riprende al giorno dopo.
Anna è posata col ventre sul panchetto di raso.
Le pose del mattino sono due.
Prima il capo di Anna è verso il cavalletto, posata a terra, i fianchi sollevati sul panchetto e il culo alto come colline gemelle a chiuderne il paesaggio all'orizzonte.
Il Maestro traccia tre fogli veloci in quella posa, due li straccia.
Poi la fa girare.
Le gambe verso il foglio.
Il panchetto è basso e in quella posizione sembra che il corpo di Anna abbia un'onda più che sembrare adagiato su un rialzo.
Colonna sonora sempre il respiro, il carbone duro che graffia il foglio, il tamburo del cuore.
Il pittore si avvicina, Anna non lo sente né lo vede in quella posizione, il capo affondarto nella massa dei capelli che sembrano un telo e posano per terra.
Sente la mano alla caviglia e sobbalza come se fosse scossa e non la mano a farla sobbalzare.
La mano sposta la caviglia spinge un po' in su la gamba a piegarsi.
Ora la caviglia è al ginocchio dell'altra gamba.
La gamba flessa ha il ginocchio in fuori in quella posizione.
Anna ha paura e desidera al tempo stesso che la mano lasci la caviglia e l'afferri. Sotto.
Il pittore senza una parola e silenzioso nel passo torna al cavalletto.
Anna sente solo lo strappo di un foglio che le rabbrividisce la schiena e poi il graffio che riprende.
Anna prova vero dolore di muscoli tesi e crampi in quella posizione, tenuta per oltre un'ora senza sosta, mentre i fogli si succedono gli uni agli altri.
Quella notte nella sua stanza Anna affonda le due mani tra le cosce serrate dritte sul letto.
E' sdraiata faccia in su e affonda le mani e si masturba senza dolcezza e con violenza inconsueta.

Il giorno dopo Anna è ancora sul panchetto.
Ribaltata.
Il pube alto sulla panca, la schiena rovesciata a terra, le gambe in quella posizione sono spalancate in modo innaturale.
Il pittore le sistema le gambe, le forza ancora, le allarga fino a che i muscoli delle cosce si tendono e dolgono, tirati e si staglia netta un muscolo teso sulle cosce.
Anna è bagnata e pensa anche all'odore che offre in quella posizione.
Ma il pittore ha occhi solo per quei muscoli tesi come corda che si disegnano sulle cosce.
Anna sa di aver bagnato il raso in quel momento.
Il viso non si vede dalla posizione del pittore in quella posa.
Anna chiude gli occhi.
Pensa ad un uomo grigio che la impali in quella posizione, adesso, allora.. ha gli occhi chiusi e piange lentamente.
Anna che svuota il pozzo finalmente.
La sera poi Agata e Anna parlano senza parole.
Agata legge il viso di Anna come se fosse il suo di allora.
Carezza Anna sul viso come se fosse davanti ad uno specchio.
E vedesse se stessa riflessa, ansiosa di una carezza mai arrivata, anni, molti anni prima.
Anna posa la guancia alla mano che carezza.
Accetta.
Volta il capo, la guarda.
Guarda quegli occhi secchi grigi di pozzo e ci si specchia.
Il tutto dura una frazione di secondo solo.
Ma sembra un secolo e lo sembrerebbe a chiunque le vedesse.
Non servono i romanzi e le troppe parole alle donne che hanno occhi grigi e asciutti di pozzo.
Agata subito si discosta con un sorriso più marcato, quasi timidezza e stupore di bambina sul volto, disegnato appena dalle rughe che le chiudono le labbra e mette al fuoco l'acqua della tisana della notte.
Anna sogna un sogno sereno che però al mattino non ricorda.

Le pose proseguono per una settimana.
E il dolore dei muscoli di Anna violentata nelle pose si accumula e somme in ogni muscolo o tendine del corpo.
Anche l'umida voglia che mai viene soddisfatta e che si scioglie adesso ogni volta che scioglie la vestaglia nello studio e questa tocca il suolo.
Ai carboncini si sono succeduti i pennelli e i colori.
Il Maestro ha trovato la sua posa.
Anna allarga sempre di più le gambe nella posa.
Incurante del lucido che offre allo sguardo in quella posa.
Il sesso è gonfio senza tocco di mano, schiuso leggermente con un taglio nero d'ombra vischiosa.
Il volto contratto nel dolore della posa e di un orgasmo negato in quella posa.
Nemmeno il tocco di una mano sua o di altri ad attenuare quello sguardo e il grido del corpo e del suo viso.
Il Maestro dipinge veloce, frenetico.
Riga con la spatola come tagliasse la tela il quadro che nasce. Schiaccia pennelli larghi di tasso sulla tela, riga veloce con setole più dure, poi le dita strappano linee sfumano colori, impastano, fondono, separano scavando righe e rughe nella pittura accumulata a strati, fanno esplodere un sesso gonfio di donna e la vertigine degli occhi.
Anna ha dolore.
Non solo per lo sforzo e i crampi e il desiderio insoddisfatto che grida.
Sa che le sta rubando il viso.. gli occhi.
Li sta svuotando della vita, la strappa col pennello e la riversa sulla tela.

La tela

Anna e Agata vedranno il giorno dopo il quadro ultimato.
Scosteranno il lenzuolo bianco che lo copre.
Il Maestro con l'aria di bambino viziato e soddisfatto è alle loro spalle.
Agata ha una lacrima sulla guancia che scende e riga.
Anna si gira di scatto, fissa il pittore con occhi secchi e grigi e con la mano aperta e le dita serrate parallele percuote violenta il viso del pittore e scappa poi correndo verso la stanza nel casale.
Quello sarà l'ultimo quadro del Maestro.
Martino arriva il giorno che il Maestro muore.
Agata che non lo vede scendere nemmeno tardi nel mattino sale in alto sotto il tetto per cercarlo.
Poi cerca Anna e chiamano un dottore.
Il Maestro alchimista e i suoi colori.
Velenosi negli anni sulla pelle, nei polmoni e sulle dita.
Mangiati anche con rabbia, strappandosi le unghie a morsi durante la pittura nella rabbia di un quadro che proprio non vuole venire fuori.
Il dottore parla di cadmio, di benzoli e di solventi che andavano evitati, di piombo da ceramiche, di toluoli e altre chimiche strane accumulate in troppi anni nello stomaco, sulla pelle e nei polmoni.
E di un fisico ormai vecchio e lentamente avvelenato dalle sue alchimie e piccole manie di bottega artigianale.
La bocca del pittore nella morte è sporca ancora nella morte del giallo dell'ultimo strappo dato con le dita sulla tela nel finale.
Sulla soglia mentre il dottore parla Agata si appoggia col capo alla spalla di Anna.
Il dottore vede così la somiglianza perfetta quasi di due sguardi gemelli nel vuoto e nel colore.
Martino arriva poche ore dopo con l'Ape e dopo due giorni riparte per Padova con Anna.
Fanno l'amore appena arrivati a casa, di corsa, con fretta e con violenza, spogliandosi mentre si spingono nel corridoio, con ansia di baci e di mani, spogliandosi a strappi e di fretta, la camicia di lui che si impiglia per i polsini ancora abbottonati, la gonna solo sollevata sopra i fianchi, appoggiata di schiena a cadere quasi sull'orlo del letto, spinta dalle sue spinte fonde a non cadere e rimanere appesa al bordo con le reni, come se fosse la prima volta ancora.

Epilogo

Con la storia del pittore si è chiusa anche parte della mia storia.
Adesso vivo e viaggio.
L'ultima indagine chiusa e l'ultimo lavoro mio prima che quel Padrone che ho comunque sempre poco amato, nell'ottica di risparmi e razionalizzazioni decidesse di portare a termine in quei giorni due progetti suoi.
La chiusura di un piccolo Commissariato, sull'isola Maggiore, l'accorpamento dello stesso sotto quello più vicino, sito in terraferma e l'accettazione e definizione del pensionamento anticipato di Sante Abbate, commissario.
La fine simultanea del Commissario e del suo Commissariato.
Da allora viaggio, solo viaggio nel lungo tempo ritrovato.
E pago il mio vagabondare senza meta con le tele.
Quelle che vendo mano mano.
Non sono più tornato all'isola della salina, né credo ci tornerò più.
Non c'è nemmeno più da trovare sull'isola la donna, ora più anziana, che aveva gli occhi di pozzo e camminava lieve tra le stanze della masseria.
La masseria è in vendita da tempo, tutti e tre i casali hanno chiuse le porte e le finestre.
In vendita anche se nessuno se ne cura di quella vendita, e non c'è nemmeno un cartello per l'offerta.
L'erba ai lati della stradina erta che si rompe sulla porta necessita di acqua e anche di taglio, immagino.
Viaggio da due anni quasi e mi fermo poco quando mi fermo in qualche posto.
A volte mi raggiunge una lettera o una cartolina, in qualche posto, magari anche solo con gli auguri o parole di ricordo.
E sulla busta a volte tre indirizzi successivi scritti, cancellati e aggiunti alla rincorsa dei miei passi.
Non torno all'isola né credo ci farò ritorno, perché i ricordi sono sempre diversi dal passato, come lo sono le persone che incontri nuovamente dopo tempo o un piatto che ricordi, da tanto non hai più gustato e se lo riassaggi ha anche cambiato di sapore.
I ricordi miei, quelli, no.
Ne serbo sempre tanti e forse avrete modo, se avrete pazienza ancora, nel futuro, di ascoltarne ancora.
Altri.
Magari in una sosta un po' più lunga, su un'altra isola, magari, ve ne parlerò ancora.
Vi parlerò di quando ero studente, sì di Accademia, ma la mia ora sapete non era l'Accademia del pittore e nemmeno dell'allievo.
Era l'Accademia dove da studente ascoltavo da insegnanti poco più anziani storie strane.
Storie di fedeltà ad idee un po' trapassate e a valori che esistono solo nei libri e nei giornali quando vogliono spezzare i cuori.
Storie passate.
Di quando a Milano, in un Commissariato dove dopo ho anche lavorato, ad esempio, gli anarchici imparavano a volare. Senza riuscirci mai.
O di una donna che mi affiancava nel lavoro in quegli anni e aveva sguardo da ribelle e cuore di sbirro vero e dello studente vero ribelle che allora l'amava.
Forse, alla prossima sosta. Forse.
Ma adesso chiudo, con questo di racconto.
Poco dopo la chiusura dell'inchiesta formale, della fine dell'uomo che esagerava coi colori e le manie, dell'uomo piccolo e vecchio e nemmeno più Maestro, nudo sul tavolo dell'autopsia di rito, è arrivata per me la pensione e per il Commissariato la chiusura. Tre storie che si chiudono in un colpo solo.
Mica male.
Quell'autopsia per burla e di routine all'ospedale di Montelusa.
L'anatomopatologo era in ferie, uno studente appena laureato come sostituto. E l'autopsia, l'avvelenamento era evidente. I colori dannosi sulle unghie scarnificate e sulla lingua e fin dentro il profondo della pelle delle mani e nello stomaco e i polmoni.
Gli stessi colori e veleni di cui erano colmi i sacchetti con le terre e la chimica per i colori usati per quasi 40 anni.
Niente di strano allora per quello studente un po' svogliato che un vecchio fosse morto, avvelenato dalle sue manie di sempre e dalla sua costante incuria.
Avevo anche cercato in quei giorni aiuto e offerto spazio all'entrata in scena ai colleghi della terraferma che poi mi avrebbero sostituito.
Se vuoi venire, cominci a conoscere le tue terre nuove, le persone, vieni nel mio feudo, ti cedo lentamente le mie storie.
".il Commissario non c'e', è via.. si è cataminato a Tindari con Augello per un' ammazzatina ..se vuole ce lo dico ..dico al Commissario che il Commissario lo cerca ...magari dopo lo trova qui più tardi... ci parla personalmente di persona ... se no stasera, se lo cerca a casa a Marinella, ha amici a cena, c'e la signorina Livia che arriva da Genova e che è magari anche già arrivata e lo sta aspettando e anche quello che scrive, quello di Palermo, Andrea, l'amico suo del Commissario, non lei il Commissario, lui il Commissario... ci telefona se vuole. Se no le passo Fazio, tuppulio alla sua porta e lo chiamo."
Fu l'ultima volta, ricordo ora, che parlai con Catarella.
Salvo non entrò così nell'ultimo atto del mio Commissariato, l'inchiesta a Tindari fu lunga e parecchio aggrovigliata e non proprio poi una gita nemmeno quella sua, e del mio vecchio feudo prese possesso solo due mesi dopo.
Fu una fortuna che Salvo non potesse, l'autopsia era chiusa per l'ospedale.
Salvo forse avrebbe indagato.
Io che avevo saputo da subito, intuito e poi realizzato, conoscendo abitudini e persone un poco, per conoscenza personale e frequentazione anche, lasciai che la morte fosse solo l'incidente di un vecchio a fine corsa, il risultato di una vita egoista e taciturna di pittore e non quello che era, un assassinio costruito lentamente, premeditato, cullato lungo negli anni, tazza dopo tazza nella sera, costruito da due donne offese, ad accumulare e consumare fino alla tazza finale un rancore.
Rancore di quelli che brontolano e rantolano in fondo al pozzo secco di un giardino all'eco che sprofonda e poi risale della voce delle persone sedute sull'orlo, che vi parlano accanto.
L'atto e la vendetta di due donne dallo sguardo prosciugato che nel gesto di amore di una tisana ogni sera tagliavano un poco la vita del Maestro, a turno, senza gelosia, generose anche in quello.
Ho chiuso un'inchiesta assai sommaria con un certificato e ho barattato.
L'ultimo atto ufficiale di una morte "naturale" scambiato con le tele.
Da allora viaggio e pago la mia vita e i miei vagabondaggi con le tele.
Le tele.
Sì.
Le opere del Maestro che in breve alla sua morte hanno avuto balzi prodigiosi di valore.
Le prime le ho vendute poco dopo, ad un mercante discreto di Venezia.
E son partito con lei.
Ho pagato un viaggio, lungo, in nave per me e la donna con gli occhi di pozzo e il passo sollevato e la piccola ruga a chiudere di lato quel suo mezzo sorriso stanco.
Poi lei si è fermata in qualche luogo ed io adesso da solo viaggio, ancora.
Le tele del Maestro sono state spartite.
In tre parti.
La maggiore a quella donna, Agata, per la pazienza lunga dimostrata in una vita, il sesso e l'amore ricevuto e quello che le fu anche negato a lungo e dato ad altre, davanti alla fedeltà un po' triste e rassegnata di una donna innamorata delle tele e del pittore.
L'altra ad Anna, a ricompensa dell'aiuto ad accontentare piccole manie di un vecchio esasperante, a ricompensa di aiuti anche domestici da amica nuova e di quelle scale spesso fatte a consegnare per la notte una tisana filtrata con cura.
Mentre magari Agata sedeva fuori e guardava lontano verso il mare.
Tele per loro in cambio del viso e del pensiero e della mente che a loro avevano rubato.
La terza parte a me, minore, ma comunque sufficiente a fare dei soldi dello Stato, quelli di ogni mese, ricompensa di una vita di lavoro, paghetta da ragazzo, per le piccole spese.
Con quelle tele, vendute con accurato mercato, viaggio e vivo bene.
Sono il prezzo e la ricompensa anche per un piccolo amore nato in anni di Accademia, anni fa, e consumato sull'isola minore dove ero ospitato per l'estate.
Piccolo amore forte di poche notti rubate nella stanza sotto il solaio alla donna dell'uomo che stimavo e che mi affascinava.
La donna che dormiva sola nella stanza vecchia degli sposi mentre lui dormiva sopra, in una stanza troppo calda, con lo stomaco pieno di immagini rubate e donne consumate nello studio al pomeriggio.
La donna che mi ha accompagnato alla partenza e per un poco ancora e che ha fatto l'amore con me dopo tanti anni spesi senza.
E sono quelle tele il prezzo mio richiesto soprattutto alla chiusura prudente dell'ultima inchiesta di un ex-commissario. In fondo poco importa.
A tutti.
Poco importa della morte di un vecchio affascinante e vuoto, avido di vita e avaro della sua.
Che il veleno fosse assunto dalle dita e dal respiro, lento negli anni, oppure più veloce, sciolto nella tisana, nel breve arco di tempo di una posa. O di una tela.
Poco importa.
Basta una firma sotto o a lato all'autopsia.
Di veleno è comunque morto.
E nella tazza, sera dopo sera, i veleni usati nei colori li aveva comunque sciolti lui, in fondo.
Anche se le mani a farlo con cura e precauzione e parsimonia assidua e prudente erano di donna.
Di donne.
Li aveva sciolti preparandoli sempre prima con cura, e coltivando con assiduo uso tradimenti continui e abbandoni e troppi silenzi.
Agata e Anna dopo quella spartizione credo non si siano più viste, da allora.
Ma non ne sono poi così sicuro.
Di Anna so solo che continua a fare l'amore con Martino, che Martino ha nello studio un paio di tele molto belle del Maestro, che l'ultima tela del Maestro è appesa sopra il loro letto, in camera e li guarda fare l'amore se la luce non è spenta.
Credo anche, anzi senza saperlo io ne sono certo, che Anna non abbia più posato per nessuno, nemmeno per Martino. Martino adesso insegna.
Alla stessa Accademia.
Dove un altro un tempo era il Maestro e lui solo l'allievo preferito.

OMAGGIO

Si impone.
E' necessario.
E' giusto, è dovuto ed è voluto.
A chi mi ha dato gioia vera di lettura con storie di un'isola e di paesi e di persone ormai care che non conosco e attendo ogni estate di ritorno in libreria, con ansia, come la mattina che Martino e Anna attendevano l'Ape in piedi sopra un molo.
Mi scuso con l'Autore per aver preso in prestito, in chiusura le sue creature ed aver giocato un poco con i suoi bambini.
Ma la foto di quei personaggi è anche nell'album dei miei ricordi ormai, come l'eco di una lingua che non conosco e ho soltanto abborracciato un poco.
Grazie.

Le dediche

Una, più che una dedica vera, è anche un secondo grazie.
Grazie ad un film che non ricordo per il titolo ma di cui serbo l'immagine di due attori. Uno dipinge e la donna posa.
Il volto della donna nuda davanti al cavalletto e a tratti solo il rumore secco del carboncino sulla tela.
La donna sobbalza e trema a quel rumore che la violenta quasi.
Da lì parte l'idea, la storia poi è tutta mia.
Mia, o meglio ancora di Sante Abbate.

Sante nasce per assonanza con un nome che mi è familiare e in ricordo di una banda strana e crudele e di un anarchico che non voleva nemmeno imparare a volare, che non si schiantava al suolo, sparava, uccideva e poi scriveva poesie nella sua reclusione..
L'anarchico bandito senza regole né laica religione. Eroe cattivo e senza cuore e poeta vero, dopo.
Troppo anarchico persino per gli anarchici credo.
Storto come un chiodo buttato via.
Negazione totale nichilista dell'idea stessa dell'eroe.
Sante, il mio, un po' gli rassomiglia.

Dedico anche ad una donna che mi ha letto, e anche un po' corretto, su richiesta mia, sorridendo, il siciliano riecheggiato da nordista di una telefonata che qui ho riportata.
Non era lingua mia... chi ha dimestichezza con quelle parole me ne scusi.

La dedica finale è alle mie modelle, Agata, Anna, tutte.
Non dipingo da più da anni, tanti, non era vocazione quella.
Ma quando scrivo le vedo tutte come in posa, per me ferme e con lo sguardo alto volto al cavalletto.
Oppure le immagino nelle loro vite che conosco e ho attraversato e frequentato.
Oppure che magari solo ho sfiorato, a volte.
(Preciso... qui. "magari".. vuol dire magari, forse, è un dubitativo, cioè, come diciamo noi quando diciamo magari... non è - anche - come intende Catarella..)

Faber

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